“Ema” – Recensione: di Pablo Larrain, un onirico e crudo coming-of-age in cui brilla la stella di Mariana Di Girolamo
Un semaforo che brucia, nel silenzio della notte, una donna con indosso un lanciafiamme, l’anarchia che spezza le catene di un mondo quadrato e ordinario. Presentato a Venezia76 con “Ema” (2019), Pablo Larrain riesce a sorprendere e far riflettere lo spettatore per mezzo di un’opera con cui raccontare la sovversione del singolo verso la società – e le sue regole – come atto di purificazione.
Un’opera d’indubbio interesse artistico, tanto d’esser stata designata – al pari di “High Life” (2019) e “Little Joe” (2019) – come Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI: “Abbandonando temporaneamente la rilettura della Storia del suo Paese per guardare al presente, Larraìn fa a pezzi il concetto di famiglia, tra corpi danzanti, musica e scorribande notturne. Fascino magnetico, naturanti – sociale, donna e madre secondo regole proprie, “Ema” incendia, ama, crea e distrugge. La sua figura esile e potente rappresenta un nuovo, rivoluzionario, corrosivo modello femminile, in un film spiazzante e visionario, massima espressione del contemporaneo“.
L’opera di Larrain racconta di Ema (Mariana di Girolamo), giovane ballerina, decide di separarsi da Gaston (Gael Garcia Bernal) dopo aver rinunciato a Polo (Cristian Suarez), il figlio che avevano adottato ma che non sono stati in grado di crescere. Per le strade della città portuale di Valparaiso, la ragazza va alla ricerca disperata di storie d’amore che l’aiutino a superare i sensi di colpa. Ma Ema ha anche un piano segreto per riprendersi tutto ciò che ha perduto.
In sala grazie a Movies Inspired – che ha suonato un po’ la riscossa del cinema d’autore post-lockdown – a partire dal 2 settembre 2020; nel cast di “Ema” figurano Mariana Di Girolamo, Gael Garcia Bernal, Santiago Cabrera, Paola Giannini e Cristian Suarez.
“Ema”: la disgregazione di una vita straordinariamente ordinaria
Una donna in cerca di una propria identità in bilico tra la sua vita familiare e quella lavorativa. Sin dalla sfolgorante e allegorica apertura di racconto emerge un’evidente tematica d’incomunicabilità umana; in un’opposizione tra la pantomima per cui tutti i giovani hanno la vita davanti – e la sensazione di chi la vive, che in fondo non è così. Larrain configura così una protagonista in cui vive un evidente conflitto scenico – nell’impossibilità di lasciar andare il proprio lascito con cui invece voler ricominciare la propria vita.
Con simili premesse, Larrain procede nel delineare un racconto dal ritmo cadenzato, che vive di una regia fredda – quasi da semplice osservatore distaccato; ma anche elegante e composta, fluida che ben sa gestire la complessità narrativa della sua opera. Per mezzo di un sagace (e confusionario) lavoro di montaggio alternato sempre più ritmato, Larrain ci presenta la dimensione scenica di “Ema”. Opponendo così alla totale disgregazione del mondo di Ema, installazioni artistiche di un cerchio della vita. Tra un figlio impossibile da riavere, un lavoro con cui colmare l’assenza del suddetto e la crisi della dimensione familiare, Larrain delinea il valore scenico della componente del movimento e della danza – catarsi ed evasione dal mondo e dalla società ordinaria.
“Il sistema è fatto per escludere gente come voi”
Con il dispiego dell’intreccio scenico, Larrain dirada sempre più la fitta nebbia attorno ai traumi di Ema, in una crescita esponenziale del conflitto con cui mostrarci le ragioni alla base della totale disintegrazione della dimensione familiare. Emergono così particolari legati al rapporto tra Ema e il figlio adottivo Polo e al rapporto con Gaston. Una dinamica affettiva d’amore e d’autodistruzione che Larrain rende con fitti scambi dialogici; tra il rinfacciare azioni, darsi la colpa l’un l’altro, e l’autoaffermazione della donna nel mondo per mezzo – e non solo – dell’essere madre.
La crisi della dimensione affettiva e familiare permette a Larrain di liberare del tutto Ema dal fallimento di una vita straordinaria su base ordinaria; generando così un cammino dell’eroe d’emancipazione femminile che va in totale controtendenza con la sopracitata autoaffermazione per mezzo dell’esplicazione dell’elemento biologico-riproduttivo. “Ema” rompe gli equilibri del racconto facendo emergere una profonda anima sovversiva e anarchica con cui Larrain trasmuta il ruolo catartico del ballo con la dimensione scenica del fuoco. Un arco di trasformazione di brutale poesia scenica che Larrain infine rende in un inno al poliamore emotivo alla sperimentazione e manipolazione, e della meccanicità dell’atto sessuale; andando così a destrutturare completamente la straordinaria ordinarietà presentataci in apertura di racconto.
Provocatorio, onirico, crudo, Larrain firma uno dei più grandi film del decennio
L’opera di Larrain vive di un’opposizione registico-narrativa. Un racconto che si connota di un’intensità vitale bruciante nella libertà dell’orgasmo e di un fuoco infinito che arde, presentatoci però in un contesto scenico dalle atmosfere fredde. Una dicotomia che va a potenziare – di riflesso – una regia asettica di semi-soggettive e piani medi spezzati che racconta, facendoci immergere nell’epopea di “Ema” prendendone però le distanze. Poco importa se le svolte narrative risultino – a volte – perfino telefonate e “costrette”, e il corso della narrazione ne esca zoppicante; nulla di ciò va ad inficiare la forza intrinseca del messaggio dell’opera di Larrain.
Un racconto d’immagini, di poesia e lirica e d’intenzioni sceniche; tutte cucite addosso a un arco di trasformazione con cui costruire, demolire e ricostruire ancora la dimensione scenica di un quadro familiare. Tra un auto bruciata e un ballo liberatorio, Larrain ci porta nella straordinarietà di una vita ordinaria per poi ricostruirla pezzo per pezzo, nella ricerca dell’identità e del proprio posto nel mondo.
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Francesco Fabio Parrino
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