Un borghese piccolo piccolo, un capolavoro tragico alla fine della commedia all’italiana, ritratto spietato di un paese in declino.
Considerato uno dei vertici della carriera di Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo è un film del 1977 tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, pubblicato l’anno precedente. Presentato in concorso al 30º Festival di Cannes, fu accolto con entusiasmo dalla critica italiana e internazionale, ottenendo numerosi riconoscimenti, tra cui tre David di Donatello e quattro Nastri d’argento, affermandosi così come una delle più significative del cinema italiano degli anni Settanta.
La pellicola, inizialmente caratterizzata da toni lievi e grotteschi, si trasforma presto in un dramma spietato, privo di redenzione: un’analisi lucida e amara della società italiana dell’epoca. Alcuni critici l’hanno definita “una pietra tombale sulla commedia all’italiana”, per il modo in cui smonta un genere che, fin dagli anni ’50, aveva raccontato con ironia le contraddizioni del Paese, ma Un borghese piccolo piccolo, al contrario, ne esaspera i toni, mostrando un’Italia cinica e disgregata, dove solidarietà e giustizia appaiono ormai illusioni del passato, e non a caso, è stato inserito nella prestigiosa lista dei 100 film italiani da salvare, come testimonianza preziosa del patrimonio cinematografico nazionale.
Al centro della storia c’è Giovanni Vivaldi, un modesto impiegato ministeriale deciso a garantire al figlio un futuro stabile, cercando di introdurlo nel proprio ufficio tramite raccomandazioni e sotterfugi, tuttavia un evento tragico distrugge ogni suo progetto, spingendolo su un cammino oscuro, fatto di vendetta e disumanizzazione.
Alberto Sordi, celebre per i suoi ruoli comici e satirici, qui si cimenta con un personaggio tragico, cupo, segnato da un dolore silenzioso e lacerante, è una delle rare interpretazioni drammatiche della sua carriera, e proprio per questo di straordinario impatto, e che gli valse il David di Donatello come miglior attore protagonista, e resta una delle più apprezzate e studiate.
Durante le riprese, Sordi confessò di aver avuto difficoltà nel lavorare con Shelley Winters, attrice americana pluripremiata e membro dell’Actors Studio, secondo lui infatti, il suo metodo di immedesimazione, basato su una lunga preparazione, contrastava con l’approccio più spontaneo del cinema italiano.
Un borghese piccolo piccolo è un’opera imprescindibile per comprendere l’evoluzione del cinema italiano e il cambiamento del suo immaginario collettivo. Un film che colpisce per la sua crudezza, ma anche per l’umanità profonda che emerge dalla figura di un uomo comune, schiacciato da un mondo freddo e indifferente.
Alberto Sordi, un’interpretazione che spiazza
Alberto Sordi, pur essendo uno dei volti più iconici della commedia all’italiana, aveva già flirtato con toni malinconici e amari in film come Il vedovo o Detenuto in attesa di giudizio, ma con Un borghese piccolo piccolo compie un salto definitivo nella tragedia. Qui la sua maschera si spezza: non c’è sorriso, non c’è ironia, solo un’umanità corrosa dalla perdita e dall’ingiustizia, la sua recitazione diventa asciutta, muta, ridotta all’essenziale, e la sottrazione espressiva dialoga con il silenzio, col non-detto, con l’angoscia interiore. È un’interpretazione quella di Sordi che segna una cesura anche per il pubblico italiano, costretto a confrontarsi con un attore che non offre più conforto, ma abisso.
L’esordio letterario di Cerami
Vincenzo Cerami, formatosi nel milieu culturale del Gruppo 63 e collaboratore di Pasolini in Uccellacci e uccellini, esordisce con un romanzo che, pur nella sua sobrietà stilistica, ha la potenza di un affresco sociopolitico. Con Un borghese piccolo piccolo, l’autore coglie il disfacimento dell’“uomo comune”, incapace di reagire al caos etico e sociale, la sua prosa è secca, chirurgica, disincantata: un realismo che si avvicina alla “narrativa dell’assenza” di Raymond Carver e al teatro dell’assurdo. In un’Italia post-boom economico, traumatizzata da anni di piombo e scandali istituzionali, Cerami coglie il disagio con una lucidità quasi documentaristica, riuscendo a trasformarlo in finzione senza tradirne la verità.
Il suono del disagio
Giancarlo Chiaramello non compone una colonna sonora classica, ma costruisce un paesaggio sonoro che accompagna il degrado psicologico del protagonista. Le sue composizioni atonali e reiterative ricordano i lavori di Nino Rota o le atmosfere rarefatte di Morricone nei western crepuscolari. La musica non accompagna le emozioni: le contraddice, le disinnesca, le osserva a distanza, in certi momenti, sembra suggerire che l’unico ordine possibile è quello del disordine interiore. È musica che non sottolinea ma disarma, e che si fa complice dell’angoscia, contribuendo a creare una tensione sorda e persistente.
Una Roma grigia e opprimente
La Roma di Monicelli è uno scenario urbano che ricorda certe atmosfere di Antonioni: spazi larghi ma deserti, pieni ma svuotati di senso, è una capitale che si è fatta provincia dell’anima, dove il grigiore dei muri riflette quello degli animi. La città non è più luogo di possibilità, ma una macchina disumanizzante che stritola ogni soggettività, la regia indugia su corridoi, fermate d’autobus, salette d’attesa: i “non-luoghi” della burocrazia moderna. Una scelta simbolica che anticipa le riflessioni sullo spazio urbano del cinema neorealista tardo e postmoderno.
Un titolo beffardo
Il titolo Un borghese piccolo piccolo non è solo una definizione sociale, ma un giudizio morale, Piccolo non è un diminutivo affettuoso, ma una diagnosi impietosa, è l’emblema dell’egoismo familista, del quieto vivere trasformato in passività etica, della mancanza di slancio ideale. In tre parole, Cerami e Monicelli sintetizzano un’intera sociologia dell’Italia post-industriale. È un titolo che riecheggia la tradizione del romanzo borghese europeo – da Flaubert a Svevo – ma che qui si carica di un sarcasmo tragico, perché la “piccolezza” non è più curabile: è strutturale.
Il grande disincanto
Monicelli, uno dei padri nobili della commedia all’italiana, firma qui il suo atto di morte del genere, non lo fa rifiutandolo, ma stravolgendolo dall’interno, gli elementi classici ci sono tutti – il funzionario, la raccomandazione, la massoneria – ma sono svuotati di comicità, la risata è strozzata, disinnescata. Quando arriva la tragedia, non c’è più spazio per il recupero comico, e questo processo è anche una presa di posizione politica: l’Italia non è più il paese che si può raccontare ridendo, la tragedia ha mangiato la farsa.
Il figlio qualunque, l’importanza dell’anonimato
La scelta di Roberto Sbarigia, volto anonimo e non professionista, si inserisce nella tradizione neorealista della non-recitazione. Il suo personaggio rappresenta la speranza modesta di una generazione: trovare un lavoro stabile, costruire una famiglia, restare ai margini dei conflitti, ma proprio questa sua “normalità” lo rende vulnerabile. La sua uccisione è una pugnalata al cuore dell’illusione borghese: la morte non ha un perché, non ha una causa politica, non è il frutto di un conflitto epico, è solo il frutto marcio di un paese allo sbando, e la normalità si rivela il vero campo di battaglia.
Un film di vendetta atipico
La vendetta di Giovanni Vivaldi è quanto di più lontano dal giustiziere hollywoodiano si possa immaginare, non c’è azione, solo preparazione minuziosa, sadica, lenta, è una vendetta che non esplode ma implode, un gesto che distrugge prima chi lo compie, è la trasformazione dell’uomo comune in carnefice, in nome della giustizia privata. Il film denuncia così il rischio di fascistizzazione della rabbia sociale, mostrando come il dolore personale possa facilmente scivolare nell’abisso dell’intolleranza. La violenza qui non è spettacolare: è domestica, silenziosa, irrimediabile, ed è proprio questo a renderla più terrificante.
Una critica feroce alla società italiana
Il film non ha bisogno di retorica politica per essere profondamente politico, mostra un’Italia corrotta, non tanto nei vertici, ma nella quotidianità: nei concorsi truccati, nelle conoscenze da sfruttare, nei favori da ricambiare. L’incompetenza e il clientelismo diventano norma, mentre la legge si mostra impotente, Monicelli coglie il cuore oscuro di un paese che ha perso il senso di comunità, sostituendolo con la paura e l’individualismo. Un ritratto che si collega alle inchieste giornalistiche dell’epoca e che anticipa molte delle riflessioni civili di autori contemporanei.
Un finale che non consola
L’ultima parte del film è quasi priva di dialoghi, come se le parole fossero diventate inutili. Vivaldi si aggira nel suo mondo come un sopravvissuto a un disastro nucleare, la sua vita è una prigione quotidiana, dove l’odio non ha generato liberazione ma solo deserto, non c’è più famiglia, non c’è più futuro, non c’è più senso. È un epilogo che non si chiude un cerchio, ma mostra una dissoluzione, la fine della speranza e l’inizio di un’epoca cinica e nichilista.
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Emanuela Giuliani