Volto di donna i primo piano

Till, recensione: la libertà non vale niente se non è per tutti

Till – Il Coraggio di una Madre, la recensione del film diretto da Chinonye Chukwu al cinema dal 16 febbraio 2023.

Hollywood non ha mai fatto davvero pace con il razzismo su cui le sue fondamenta poggiano. Riflesso involontario di quella stessa società che fa da contesto alla sua nascita, la grande macchina dei sogni ha sempre operato in modo da restituire agli statunitensi le deformità della loro società nascoste (o a volte sottolineate) da un miraggio di coscienziosità. Succedeva soprattutto nell’era Jim Crow e del “separati ma uguali”, in cui le vicende di Emmett Till, quattordicenne brutalmente assassinato a Money per motivi razziali, hanno fornito un’ulteriore spinta in direzione della battaglia per i diritti civili degli afroamericani.

La comprensione e la conseguente elaborazione di un senso di colpa collettivo ha dato origine negli anni sessanta, sulla cresta di quel movimento per la conquista di una libertà mai avuta, a una rivoluzione nel cinema statunitense. Un cambiamento di cui è possibile notare i residui ancora oggi, nel cinema di genere come nel prestige drama (naturalmente votato all’Academy), in forme non così evolute rispetto a quelle degli esordi.

Mamie Till Mobley (Danielle Deadwyler) diviene una delle maggiori attiviste e voci di protesta nel nascente Movimento per i diritti civili degli afroamericani dopo aver subito il rapimento e l’assassinio di suo figlio Emmett (Jalyn Hall), morto all’età di soli quattordici anni nel 1955. Colpevole di un commento di apprezzamento nei confronti della bianca Carolyn Bryant, che in seguito lo identifica dinanzi ai suoi aguzzini, Emmett viene linciato, torturato e gettato nelle acque del Tallahatchie con una pala di una ginnatrice e filo spinato. Viene ritrovato dopo tre giorni, a seguito dei quali Mamie insiste affinché la bara di suo figlio venga lasciata aperta, durante il suo funerale, per mettere il mondo dinanzi alle conseguenze e ai segni corporali che la piaga del razzismo sistemico lascia sui corpi violati delle sue vittime.

Till – Il Coraggio di una Madre: Mamie è stata molto di più

Emmett vuole andare a trovare i suoi cugini nel profondo sud. Per prepararsi al viaggio che lo aspetta sua madre Till si raccomanda: non destare sospetti, abbassa la testa ogni volta che un bianco sospetta di te; chiedi scusa, se necessario, anche quando sei colpevole di nulla; sii sempre vigile.

Come le parole della paura governino, su ogni livello del sistema, la vita di ogni singolo cittadino afroamericano negli anni cinquanta è qualcosa che la regista Chinonye Chukwu si promette si raccontare attraverso la lotta di Mamie Till, figura fondamentale per la formazione dell’attivismo contro il suprematismo bianco di quegli Stati Uniti. Una donna, prima ancora che un emblema, messa nella condizione di dover prima assimilare la tragedia, per poi comprendere che la sua strumentalizzazione per un fine più grande del singolo potrà cambiare la faccia di un paese attraversato da fratture culturali e ideologiche ancora profondissime. È un doppio percorso quello di Till, che si duplica fra gestazione personale e collettiva di un trauma, in un percorso che dovrà necessariamente scandirsi per fasi – la ricerca del corpo, l’accettazione, il processo – fino a chiudersi in un epilogo che può concretizzarsi solo con la trasformazione del crimine e dell’abuso in un dispositivo preziosissimo per la battaglia civile.

Il film di Chukwu, scritto insieme a Michael Reilly e Keith Beauchamp (prodotto dalla Barbara Broccoli di 007 con Whoopi Goldberg, che nel film interpreta Alma Carthan), viene incartato nella pulitissima confezione di un film “da Academy”, anche se all’Academy non arriva.

Dalla fotografia, decisamente patinata, a una regia piuttosto sobria e che, tuttavia, non si risparmia nell’utilizzo di soluzioni un po’ suonate (l’effetto Vertigo per evidenziare lo stato d’animo della protagonista nel momento in cui apprende dell’uccisione del figlio) e nella composizione di inquadrature forse un po’ troppo ricercate per restituire, come si vorrebbe, la visceralità del dolore che si cerca di narrare. È Danielle Deadwyler a rappresentare, con la sua Mamie indimenticabile e in grado di spaziare dagli abissi del massimo dolore concepibile al furore inibito della consapevolezza, il pilastro indiscusso di “Till”, incentrato su una vicenda che avrebbe meritato una maggiore esplorazione di tutti gli elementi che compongono il razzismo a livello sistemico e un’attenzione particolare sulla risonanza mediatica e culturale dell’omicidio di Emmett Till.

Al netto di un terzo atto da courtroom drama particolarmente riuscito e abbastanza graffiante (ma che riproduce gli stilemi del genere senza far molto altro), l’opera di Chukwu non sembra volere o sapere come liberarsi dalla trappola della pornografia del dolore, che trasforma in troppe occasioni un corpo martoriato in occasioni per provocare orrore più che afflizione e che getta i personaggi in pasto a uno sguardo commiserevole incapace di evolvere, bloccandoli nell’inevitabilità della sofferenza. L’impressione è che Till, il cui ruolo di educatrice e attivista ha invece rivestito gran parte della sua vita, sia stata ridotta a una figurina della mortificazione la cui esistenza si riduce al lutto per un figlio che le è stato strappato. Ma Mamie è stata molto di più, e pertanto avrebbe meritato di più. 

Leggi anche: Till: la sceneggiatura completa del film di Chinonye Chukwu

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Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

5


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