Brendan Fraser in The Whale

The Whale, la recensione: la solitudine di Moby Dick

The Whale, la recensione dell’emozionante film di Darren Aronofsky con protagonista Brendan Fraser, nei cinema italiani dal 23 febbraio 2023.

Bisogna sfogliare almeno cento pagine prima che il capitano Achab faccia la sua comparsa in Moby Dick. Il cetaceo che riempie le pagine del romanzo, che dà all’opera il suo titolo e che assilla l’animo del protagonista assume un ruolo che è primario perché esiste in funzione di Achab e della sua ossessione per lui. O è, al contrario, proprio Achab ad acquisire il suo senso d’esistere grazie a quella stessa creatura che vorrebbe annullare?

Questo dilemma è il punto di partenza per almeno cominciare a comprendere, ad analizzare, il capolavoro di Melville e in egual modo The Whale, presentato in occasione della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e, qualche giorno dopo, al Toronto International Film Festival. Perché anche in The Whale gli arrivi essenziali, quelli che caricano di nuovi sensi il film, sono quelli che tardano a manifestarsi, quelli per cui è necessario attendere come si attende la comparsa di un nuovo attore sul palcoscenico. Non è casuale il paragone con l’azione scenica teatrale, visto che The Whale è tratto da un testo originale di Samuel D. Hunter, che prende la parabola del melvilliano capitano tragico e della sua balena sgomenta, eppur elusiva, e la trasla in una storia di padri, figlie e molto di più.

“In the amazing book Moby Dick by the author Herman Melville, the author recounts his story of being at sea. In the first part of his book, the author, calling himself Ishmael, is in a small sea-side town and he is sharing a bed with a man named Queequeg…”

Moby Dick perché Darren Aronofsky apre e chiude la sua ottava opera con un modello circolare, attraverso la lettura di un saggio che desacralizza e insieme sublima Melville con il linguaggio disadorno e l’onestà propri di un bambino, o di una bambina, e che per qualche ragione sembra salvare Charlie (Brendan Fraser) anche nei momenti più critici. Ma i momenti critici, come arresti cardiaci, sono la normalità nella vita di Charlie, professore di 250 chili trattenuto dal suo divano, dal suo letto, dal suo cibo spazzatura e confinato nella sua casa a soqquadro, da dove dispensa le sue lezioni universitarie attraverso un portatile con la videocamera inattiva e con un microfono che gli lascia ribadire agli alunni, evitandogli l’impaccio di mostrare il suo aspetto, l’importanza categorica dell’onestà nell’atto della scrittura. Solo la costante presenza di Liz (Hong Chau) allevia la sua solitudine, reclusione fisica e mentale che Charlie ha autoimposto a sé da quando ha perso una persona amata. Finché alla sua porta non bussa Ellie (Sadie Sink), figlia indecifrabile che non vedeva da tantissimo tempo.

Una lezione di vita, amore e fede  

Mostri, montagne, colossi che assediano la coscienza e l’esistenza umana. La balena di Achab, il romanzo dello scrittore, Dio e l’uomo di religione, l’attore e il regista. Dieci sono gli anni che la ricerca del protagonista perfetto ha impiegato per Aronofsky, che infine l’ha trovato in un luogo che nessuno avrebbe mai immaginato: Brendan Fraser, un nome dimenticato, un attore abbandonato. L’ennesima star, masticata e rigettata dalla macchina hollywoodiana e ripescato per inserirsi in un pesantissimo abito prostetico e dare alla luce il personaggio che dovrebbe salvarlo dall’oblio.

Quel che è più incredibile è che ci riesce: The Whale, indipendentemente da ciò che decreteranno gli Academy, ha già regalato a Fraser la sua rinascita, la sua rivalsa e il suo miglior ruolo con una sola occasione. E a strabiliare con maggior forza è esattamente il come e il quanto: quanto abilmente Fraser sia riuscito a trasfigurarsi in ciò che fisicamente non è, a conquistare l’attenzione dello spettatore magnetizzando sulle dimensioni e sulla forma del suo (finto) corpo ogni interesse per poi invertire ogni previsione.

È uno stratagemma in linea con la strategia che è insita nella struttura di The Whale: farci credere di stare guardando un film sulla vita di una persona obesa per poi rivelarci che in realtà stiamo guardando un film su una persona stanca di regalare tempo alla sua vita. E non perché limitata dalla sua anatomia, che è piuttosto una scelta consapevole: Charlie non riesce ad alzarsi dal divano perché ha creato, ha modellato un corpo che gli impedisse di farlo, ribadendo così la sua assoluta e cristallina autodeterminazione su sé e sul suo spazio. I perché, però, non verranno qui scoperti: sono celati nella magnifica prova attoriale e nello srotolarsi della narrazione di un film che ha bisogno di essere scoperto pezzo dopo pezzo, con la pazienza che si deve dedicare alle opere assemblate su strati di testi non immediati ma magnificamente accordati. Perché The Whale è un’opera che si racconta e che bisogna quindi saper ascoltare, saper leggere; come il suo protagonista recalcitrante, restio ad accogliere voleri e a soddisfare domande che non siano quelli di sua figlia, cattiva per la madre che l’ha cresciuta e geniale per il padre che non l’ha mai avuta.

La confessione e la crisi della religione

The Whale non utilizza le figure allegoriche di Melville per raccontare di nemesi eterne, di belve e di inseguimenti incessanti che diventano ossessioni individuali. Non vuole neppure rappresentare la “balena” Charlie per contrapporlo al suo personale Achab, giunto in casa sua con il solo scopo di ucciderlo. Il capitano, qui, è colui che ha scritto quella tesi prosaica, schietta e tutt’altro che ingenua o innocente in cui si asseriva la natura esiziale di Achab, che aspira inconsapevolmente alla morte, e di Moby Dick, condannata a non avere sentimenti. È lo stesso uguale cuore ferito quello al centro della storia d’avventura e di questa storia, incastonata nel delimitante 4:3 per evidenziarne l’intimità (e il dubbio lacerante a suggerirci che forse ci stiamo addentrando in un mondo su cui non avremmo il diritto di affacciarci). Eppure i confini fra le due creature, come quelli fra padre e figlia, si fanno evanescenti e comprendere chi sia uno e chi sia l’altra, se siano entrambe le balene braccate da qualcuno o se siano bracconieri loro stessi, è impossibile.

È una confidenza in senso stretto, quella di Charlie che narra cos’ha perduto per guadagnare così tanto, ma anche una confessione nel suo senso più puramente liturgico. È l’angosciante polemizzare sul significato, sull’utilità, sulla resa effettiva della religione nella contemporaneità, anche nelle sedi in cui è possibile trovare la fede. È la sommessa ma risoluta messa in discussione di un sistema di valori che crede nel potere persuasivo e salvifico sopra ogni cosa, sopra anche al dolore, calpestato prima ancora di essere assorbito.

Non si può quindi vedere The Whale e illudersi che non sia un’opera dolorosissima sulla crisi della religione e permeata ovunque dalla sfiducia, quando non dal disprezzo, nella sua totale inabilità nell’offrire la promessa salvezza collettiva. Non c’è nulla che nel passato di questi personaggi abbia avuto una parvenza di schema razionale, o che tenda a un senso di giustizia morale. C’è solo la perseveranza del dolore e dell’abbandono, a cui la credenza vuole attribuire un ordine logico e a cui si cerca di conferire un significato che altrimenti non avrebbero. Perciò la dimensione in cui esiste Charlie è il tempo dell’attesa, è la gestazione della morte. Solo le lunghe e noiosissime descrizioni di balene possono permettere all’autore di salvarci dalla desolazione, dalla tristezza della sua stessa storia. Almeno per un po’.

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Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

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