“The Lodge” – Recensione: il potere oscuro della mente
“Oggi e sempre vi state preparando per Dio. Lasciate andare la vostra anima, è il momento, Dio vi aspetta e tu solo sai come aprire quella porta”
Inizia con un’apertura ad effetto, una partenza tutta d’un fiato la nuova avventura horror di Veronika Franz e Severin Fiala, tornati ad una pellicola claustrofobica ed angosciante dopo il glaciale e controllatissimo “Goodnight Mommy”.
Una sceneggiatura scritta con Sergio Casci ed una trama che riprende sempre un contesto familiare in una casa isolata ed inaccessibile, in montagna. Una famiglia modello americana distrutta da un’altra donna, il padre Richard, interpretato da Richard Armitage, ha una nuova fiamma che vuole sposare ad ogni costo, una sua ex paziente dal passato macabro, Grace, dal volto di Riley Kelough. Venuta a conoscenza di questa decisione la madre, con un gesto drastico davanti ad un calice di vino rosso, si toglie la vita, lasciando due figli, Mia di 10 ed Aidan di 15 anni.
Un’aura di arcano e religioso al tempo stesso si insinua sottilmente nella prima parte della pellicola, tra un quadro di Antonello da Messina “L’Annunciata di Palermo” dallo sguardo quasi inquisitore ed immagini rubate al passato, di un prete che sottopone due bambini ad un rito dal sapore esoterico, incidendo i palmi delle loro mani.
E tornando al presente, quale migliore occasione delle feste natalizie per trascorrere del tempo con la futura nuova “mamma” al cottage a Silver Lake? E così, nonostante la ferma opposizione dei bambini, la decisione oramai è presa. E “sorpresa delle sorprese” Richard deve scappare in città per lavoro e lascia Grace con i suoi psicofarmaci e le devastanti fragilità emotive, da sola con i pargoli, che la detestano apertamente, senza sforzarsi a dimostrare il contrario.
Una pellicola che ricerca la genesi e i successivi riferimenti nel modello stilistico di capolavori come “Shining” di Kubrick e “Le radici del male” di Aster.
Una casa isolata in un ambiente ostile e la sua perfetta ricostruzione in miniatura, fedele modellino di quello chalet nel bosco, con la camera che si avvicina lentamente fino ad inquadrarla nelle sue stanze per dare inizio all’incubo, come nel capolavoro di Ari Aster.
Un uso degli esterni invece decisamente carpenteriano, in cui “La Cosa” viene addirittura citata in una sequenza attraverso la visione di un programma televisivo.
Tutti gli elementi classici del genere sono presenti, scriocchiolii sinistri in lunghi corridoi avvolti nella semioscurità, una tormenta di neve, immagini religiose inquietanti e un preponderante rapporto tra uomo e natura, una natura che sembra complice essa stessa del male, carente di una struttura narrativa più incisiva ed accattivante.
Tutto sembra appositamente preparato per accrescere il senso di angoscia e di pericolo, insinuando un dubbio sempre più preponderante, con un vago accenno a presenze misteriose e materne, ma un ritmo estremamente dilatato ed una sceneggiatura dal doppio plot twist fin troppo “telefonato” rendono il lungometraggio estenuante.
Veronica Franz e Severin Fiala sembrano non riuscire a controllare il ritmo della pellicola, disperdendosi in modo eccessivamente ossessivo nella simbologia, senza puntare il focus nell’impatto della necessaria drammaticità.
Immagini evocative, dalla bambola feticcio di Mia che crea un costante collegamento con la madre morta e venerata, alle immagini della vita di Gesù, nel quale Grace mano a mano sembra sempre più identificarsi.
Una scena nella neve che ricorda la salita al Monte Sinai dove in cima è posta una casa architettonicamente a forma di croce, il suo volto nello chalet illuminato da dietro come il Signore che parla alle anime, icone religiose che crescono di pari passo con il fanatismo e la possessione nella mente di Grace. “Repent” quello è il tarlo che scava la sua follia, il pentimento.
Incubi di un passato dominante e apparentemente dominato che torna a farsi spazio nella psiche fragile di Grace, sospinto da una rappresentazione del sacro che dovrebbe essere il bene assoluto, ma si trasforma nel male per eccellenza.
Un male accompagnato dall’uso sapiente del sonoro, che si tratti di musica elettronica ed alienante o di rumore, perfettamente allineati alla sensazione di straniamento e di inquietudine.
E “deus ex machina” la casa delle bambole, al cui interno vengono messe in scena drammatiche rappresentazioni di quell’allucinazione religiosa che procede, in una messa in scena fin troppo diluita, verso il Giudizio Finale.
“Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per frutto la vostra santificazione e per fine la vita eterna”. – Romani 6:22 –
Chiaretta Migliani Cavina
© Riproduzione Riservata
Il Voto della Redazione: