“The last duel”: la verità, quella vera?
“Non esiste il diritto, ma esiste solo il potere degli uomini”
Ridley Scott torna alla sua passione per il romanzo storico e racconta una storia vera, quella dell’ultimo “duello di Dio” combattuto in Francia nel XIV secolo sotto il regno del giovanissimo Carlo VI, al cospetto dell’aristocrazia e del popolo. Il cavaliere Jean De Carrouges, interpretato da un impavido e rude Matt Damon, di ritorno dalla guerra, scopre che sua moglie Marguerite, Jodie Comer, è stata violentata dallo scudiero e suo amico Jacques Le Gris, un superlativo Adam Driver.
Un’accusa che Le Gris negherà con ogni fibra del suo corpo al punto da spingere De Carrouges a invocare il diritto divino del duello. Il combattimento all’ultimo sangue avrebbe decretato il vero depositario della verità: se De Carrouges avesse vinto non solo Le Gris sarebbe morto per mano sua, ma avrebbe dimostrato di essere veramente uno stupratore. Se invece De Carrouges avesse perso, l’innocenza di Le Gris sarebbe stata salutata con gioia e Marguerite, sarebbe stata accusata di aver testimoniato il falso e morta insieme a suo marito, bruciata sul rogo senza pietà.
Una storia che ruota attorno alla figura di una donna, ma fortemente improntata dal predominio maschile, tra superbia, ignoranza, alterigia e lussuria.
Il regista scandisce la storia in tre capitoli, tre punti di vista fatti di episodi ricorrenti che si differenziano per ricordi e registro, e ruotano abilmente attorno al perno della vicenda: la ricerca della verità, seppur con la consapevolezza che essa non può essere nè completa, nè obiettiva.
Una donna in un mondo di cavalieri
“Perdoniamo un bambino che ha paura del buio, da temere è l’uomo che ha paura della luce”
Un racconto sanguinario fatto di tradimenti e violenza, di invidie e battaglie, dove due uomini che incrociano le armi per dimostrare la propria supremazia, sembrano difendere la propria virilità più che la propria innocenza.
L’irrazionalità e l’ambizione nascoste nel cuore di tenebra umano sono il motivo di un conflitto permanente, che da personale diventa collettivo. E “super partes” in un mondo di uomini, si eleva una donna, coraggiosa, fortunata, una voce fuori dal coro, un suono flebile in un periodo storico assai poco progressista, una voce che in quanto femminile potrebbe mancare di potenza, di credibilità. Una riflessione che trova il suo specchio nella società attuale, in cui spesso le donne hanno ancora paura di denunciare i crimini che subiscono, per paura proprio di non essere credute.
Marguerite è una di queste donne: umiliata, violentata e offesa, si trova davanti a un pubblico che è capace solo di puntare il dito contro di lei, accusarla di essere millantatrice, infedele e, per questo, inaffidabile nella sua denuncia.
Lei è il cuore pulsante del film: nel modo in cui stringe i denti mentre sopporta le attenzioni del marito, nella sua cultura inutilizzata, la sua solitudine in una tenuta isolata e ostile e la sua ostinazione nel mantenere le sue convinzioni anche di fronte all’atroce scoperta che l’aggressione sessuale non è un crimine contro la donna, bensì un crimine contro il marito.
Una società medievale crudele e primitiva
“Nulla impedisce ad una donna di essere amata da due uomini e ad un uomo di essere amato da due donne”
Una maestosa sequenza d’apertura, dedicata al montaggio parallelo della vestizione corazzata dei due contendenti a duello e alla preparazione della mise di Marguerite che vi assisterà dagli spalti, sembra ispirare una pellicola che nella sua epicità può evocare i duellanti ed il gladiatore.
Ma la sceneggiatura scritta a più mani da Matt Damon, Ben Affleck (il vanesio e biondissimo Conte Pierre D’Alencon) e Nicole Holofcener volge lo sguardo altrove, tra le mura domestiche, dove la regia attenta di Scott sa disegnare lo spazio e la luce, aiutata dalla sapiente fotografia di Wolski.
Le scene degli interni vengono attraversate da fasci di luce che squarciano l’oscurità richiamando la pittura di Rembrandt, arricchite da primi piani dall’incarnato che riflette i ritratti di Vermeer, mentre la sovraesposizione con le figure spesso in controluce fa da contrasto con le zone d’ombra.
Colori desaturati che passano dal blu al grigio, all’ocra disegnano un mondo, tra imponenti castelli e ornati di campagna, in cui l’immagine prevale sulla narrazione diventando quasi tattile, ed a tal proposito, assai interessanti le declinazioni, soprattutto in termini di luce, dei capitoli generati dai ricordi dei tre protagonisti.
Una sequenza finale che rappresenta la vetta del lungometraggio, un trattato sulla caducità delle cose terrene e sulla giustizia vera, perchè non c’è giustizia nella corte e nel mondo: l’unica giustizia è quella di Dio.
Una storia vera raccontata da un maestro nel plasmare il movimento, la luce ed i corpi e creare dalle immagini un affresco di vita, che nella messa in scena ricorda le parole di Pirandello “Se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?”
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Chiaretta Migliani Cavina
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