La recensione di: The Irishman, l’attesissimo nuovo film diretto da Martin Scorsese in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.
“Un film con i miei amici” è così che Martin Scorsese ha descritto The Irishman durante la presentazione al TIFF (Toronto Film Festival), al BFI London Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma. Eppure, l’ultima fatica del regista de Taxi Driver e Quei bravi ragazzi, costata ben 160 milioni di dollari e con sei mesi di post-produzione a causa della pionieristica e costosissima tecnica di ringiovanimento, ha avuto un percorso tutt’altro che facile, diventando uno dei film con la pre-produzione più travagliata nella storia del cinema contemporaneo.
Nonostante il coinvolgimento di un maestro come Scorsese, nessuno dei grandi studi hollywoodiani ha voluto rischiare nel finanziamento del progetto, se non Netflix, che ha scelto di investire nel colosso cinematografico. Con questo atto, il gigante di Los Gatos ha ulteriormente consolidato la propria posizione nell’industria audiovisiva, spingendosi non solo come canale distributivo alternativo, ma anche come una delle case di produzione più influenti del panorama contemporaneo. Netflix, infatti, aveva già dimostrato il suo impegno verso il cinema di qualità, come dimostra l’acquisizione del Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 2018 con Roma di Alfonso Cuarón, che l’anno successivo aveva vinto l’Oscar come Miglior Film Straniero.
La produzione di The Irishman ha suscitato un’ondata di polemiche, in particolare riguardo alle dichiarazioni di Scorsese, che aveva definito i film Marvel e il genere cinecomic in generale come “non cinema”, etichettandoli come “baracconate” e “parchi divertimento”. Queste dichiarazioni, mal riportate dalla stampa e riprese da altri registi di calibro come Coppola e Loach, non erano volte tanto a svalutare il genere, ma piuttosto a sollevare una riflessione sulle scelte dell’industria cinematografica, che in un’ottica puramente capitalistica preferisce investire in prodotti di largo consumo come i cinecomic, piuttosto che in un’opera d’autore colossale come The Irishman, che dura ben tre ore e mezza. Questo dimostra come Hollywood sia diventata sempre più avara di rischi, un concetto che rimanda ai tempi della New Hollywood, simbolicamente chiusi da I cancelli del cielo di Michael Cimino.
La realizzazione di The Irishman è dunque l’esempio di come Netflix abbia preso il rischio su una grande opera cinematografica, tratta dal romanzo L’Irlandese: Ho ucciso Jimmy Hoffa di Charles Brandt, e realizzata con un cast eccezionale composto da Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Bobby Cannavale, Stephen Graham, Ray Romano e Anna Paquin. Il film narra la storia di Frank Sheeran (De Niro), un ex soldato che diventa un killer della mafia e collega tra il boss Russell Bufalino (Joe Pesci) e il sindacalista Jimmy Hoffa (Pacino), in un’epopea che unisce il genere gangster a una riflessione meta-testuale sulla storia e sull’evoluzione del personaggio del gangster stesso.
The Irishman è, infatti, il punto culminante di un percorso iniziato da Scorsese nel 1973 con Mean Streets: Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, e proseguito con Quei bravi ragazzi e Casinò. Il regista, accompagnato dagli storici attori De Niro, Pesci e Keitel, esplora il mito del gangster, in particolare l’evoluzione di questo personaggio nel corso dei decenni. Se in Mean Streets si parlava della giovinezza del gangster, della sua lotta con la moralità e della tentazione di uscire dal circuito criminale, in The Irishman si assiste alla figura di un uomo che ha ormai superato il punto di non ritorno. Frank Sheeran è un personaggio che non si pente, ma si fa tragicamente carico della sua condizione, fino al gesto definitivo: l’assassinio del suo amico e mentore, Hoffa.
Il film, come in altre opere precedenti di Scorsese, esplora anche la dimensione più intima e umana dei suoi protagonisti. Frank Sheeran non è solo un criminale, ma un uomo diviso tra la sua vita familiare e quella nel crimine. La figura della figlia Peggy (Anna Paquin) diventa l’emblema del disfacimento dei legami affettivi che, come in Quei bravi ragazzi e Casinò, si sgretolano irrimediabilmente a causa delle azioni violente del protagonista.
L’opera si sviluppa con un ritmo graduato, dove la narrazione procede lentamente, ma con una certa maestosità, verso un finale che si rivela anche una riflessione sulla storia americana, dalla Seconda Guerra Mondiale agli anni Duemila, toccando momenti cruciali come la Baia dei Porci e lo Scandalo Watergate. Il personaggio di De Niro, punto di vista del racconto, è quello con l’arco narrativo più definito: la sua crescita psicologica non è tanto nel compiere gesti criminali, quanto nella sua umanità che emerge lentamente negli ultimi anni di vita.
La vera innovazione di The Irishman sta nella tecnologia del ringiovanimento digitale, che permette a Scorsese di seguire il percorso di un gangster dal pieno vigore alla decadenza finale, ma senza bisogno di ricorrere ai tradizionali flashback. La tecnologia consente di esplorare la fine di un’epoca, quella della New Hollywood, con il volto stesso di De Niro che diventa il simbolo di un’epoca che sta per chiudersi.
In conclusione, The Irishman non è solo un film “tra amici”, come lo aveva descritto Scorsese, ma un’opera monumentale che racchiude l’essenza della sua carriera e la sua visione del cinema. Dopo una breve finestra distributiva nelle sale italiane, il film è stato messo a disposizione su Netflix dal 27 novembre 2019, segnando così un ulteriore capitolo nella relazione sempre più stretta tra il cinema d’autore e le piattaforme digitali. Un’opera che non solo celebra l’evoluzione del genere gangster, ma anche il coraggio di un regista che ha saputo reinventare il suo linguaggio cinematografico per raccontare, ancora una volta, una storia epica.
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Emanuela Giuliani
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