“The Farewell – una bugia buona”: la purezza di un cuore tra ragione e sentimento
Un detto cinese recita a proposito del cancro: “Le persone con questa malattia muoiono. Ma non è la malattia ad ucciderle, ma la paura”.
Avete mai pensato di raccontare con leggerezza e semplicità l’impatto della scoperta di questa malattia in una persona cara? Lulu Wang lo fa, al suo esordio nella regia, dando vita ad una perla rara, una storia autobiografica e sentita, che si apre con una potente didascalia: “Questo film è tratto da una bugia vera”.
Una pellicola precedentemente lodata e scoperta oltreoceano e presentata in anteprima al “Sundance Festival” a gennaio, in cui la regista traspone le proprie esperienze da cinese emigrata negli Stati Uniti, affrontando i drammi e le imperfezioni già descritte nel suo romanzo “What you don’t know” rendendo una bellezza intrisa di grazia.
Una famiglia di stampo patriarcale cinese ed una nipote sopra ogni cosa, Bill, interpretata da una straordinaria Awkwafina, la qulale, trasferitasi in America con i suoi genitori, vive da sola in una New York complessa, immersa nelle sue aspirazioni cercando un posto nel mondo. Bill va avanti alla giornata fino a quando non scopre l’irreparabile: sua nonna Nai Nai (Zhao Shuzhen), che vive nella sua città natale di Changchun sta morendo di tumore, le restano solo tre mesi e la famiglia decide di tenerla all’oscuro di tutto, seguendo la tradizione.
Questa scelta diventa una vera ossessione per Bill, combattuta tra due fuochi, se sia giusto mentire seguendo la volontà familiare o invece costruire un rapporto genuino fatto di un’autentica compassione e supporto. “Non è sbagliato mentire? Se è a fin di bene è giustificato”.
I vari nuclei familiari quindi decidono di tornare alle loro radici andando a trovare l’ancor arzilla nonnetta, con la scusa di un matrimonio organizzato all’ultimo momento. A quel punto ha inizio la via crucis di Bill, divisa tra due luoghi dell’anima, i poli opposti che l’hanno resa adulta. Da un lato l’America, la terra sognata, indipendente e fiera, patria delle opportunità e della libertà e dall’altra la Cina, landa delle origini e del cuore, dove è un piacere ritrovare il nido di sempre e stralci di memoria chiusi nel cassetto della mente.
Significativa la scena del confronto tra Bill, suo padre e suo zio, un pungente affresco delle caratterizzazioni di due differenti culture: laddove in Occidente ogni individuo è a se e pensa di avere l’esclusiva sulla propria vita, in Oriente ciascuno è parte di un tutto, della famiglia e della società, condivisione contro individualismo, perchè “la vita non è questione di cosa fai, ma come lo fai”.
In Cina dunque vita e morte sono affari di famiglia, legati a doppio nodo dal fil rouge che nasce con il cordone ombelicale e cresce abbracciando una scelta di sacrificio, nel farsi carico di ogni pena e sofferenza e trovando nella menzogna la compagna ideale lungo l’ultimo sentiero. Una strada che tutti percorriamo, che cambia continuamente e corre sempre più veloce, come le immagini dei treni che la regista mostra per seguire le vibrazioni della vita, in una poetica consapevolezza dello scorrere del tempo ed in una circolarità del vivere che è condivisione, come le tavole rotonde ricorrenti attorno a cui tutti sempre si riuniscono, in un modo incomprensibile a Bill in eterno conflitto tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Un mondo che avanza a velocità impressionante, in continuo confronto con l’America. Un paese dove i luoghi della memoria e gli spazi verdi hanno ceduto il posto ad alveari popolari e centri commerciali, con il passato che assume un valore senza tempo, da custodire gelosamente per poterlo tramandare alle future generazioni.
Un racconto sull’esperienza, dell’altro, degli immigrati, della famiglia e della solitudine. “Quando la notte vai al bagno e l’unica cosa che vedi è la tua ombra”.
“The Farewell” tocca nel vivo, con la leggiadria di una carezza e la stessa delicatezza che si ritrova nella palette dei colori, nella fotografia minimalista e nelle inquadrature, tra primi pianti intensi e riprese d’insieme. Lulu Wang ha scelto dettagli volutamente accentuati, come la postura ricurva di Bill, richiusa in se stessa e stanze intenzionalmente troppo piccole, con sfondi che hanno dell’assurdo ed una colonna sonora dal sapiente uso della lirica per accompagnare l’intensità del vissuto.
Un cast corale, che è forza ed espressione del sentimento, pervade la vicenda risuonando all’unisono, parlando al pubblico in maniera profonda e sottile, sospeso tra commedia e dramma, in una storia fatta d’incanto preso dal vero e portato al cinema, con armonia ed eleganza.
Un insegnamento, un passaggio realizzato con estrema sincerità, la chiave per la vera emozione, una storia senza fronzoli, senza carico alcuno, senza ridondante drammaticità, ma pura essenza, che arriva direttamente e coinvolge, una storia che la regista ha saputo comunicare con la stessa forza ed immediatezza di un lungo abbraccio.
“La verità è cosi preziosa che deve sempre essere protetta da una guardia del corpo fatta di bugie” (Winston Churchill)
Chiaretta Migliani Cavina
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