Sorry we missed you – Recensione: una umanità schiacciata dal lavoro

“Sorry we missed you” – Recensione: una umanità schiacciata dal lavoro

“Sorry we missed you” vede il ritorno del regista britannico figlio di operai, che porta all’attenzione del pubblico lo schiacciamento dell’individuo e della famiglia ad opera della nuova società del lavoro, smaterializzato e digitalizzato insieme alla vita stessa. Un affresco dipinto a tinte forti delle schiavitù del nuovo millennio, un film che penetra nella mente come un tarlo e poco a poco lacera anche l’anima. Ken Loach, come sottolineato in conferenza stampa, ha scelto persone dal popolo per i suoi protagonisti, come Kris Hitchen interprete di Chris che “per la gran parte della sua vita ha fatto l’idraulico”, e Debbie Honeywood, nei panni della moglie Abby, che ha sempre svolto l’impiego di insegnante di supporto.

“Persone in cui si crede e che hanno capito a livello di pancia questa situazione”.

Assistiamo al racconto della quotidianità di una famiglia irrimediabilmente compromessa, in primis dalla crisi economica del 2008 che gli ha impedito di realizzare il sogno di comprare una casa, e poi distrutta nei rapporti interpersonali dall’alienazione di un lavoro svilente e da una corsa continua che riporta sempre ad un desolato nulla. “Mi sembra che non stia funzionando nulla, stiamo affondando nella sabbia”.

Abbie e Chris cercano di dare un futuro migliore ai loro due figli, e lui dopo aver perso il lavoro nell’edilizia cerca di rimettersi in gioco puntando tutto sul franchise dei corrieri per le consegne a domicilio, sacrifica anche la macchina di Abbie per l’acquisto del furgone, lasciandola nel suo lavoro da badante, già senza tutela e sicurezza, anche senza auto.

Un padre in bilico tra le intemperanze del figlio e i pressanti sensi di colpa per non riuscire a dare serenità alla figlia di 11 anni. Due ragazzi presi anch’essi dalle scuole locali e trascinati a sorpresa nell’improvvisazione della recitazione, in una scena in particolare, con Liza Jane che rivelando un segreto ai genitori fa avvertire il pathos genuino di una scoperta a tutti ignoto, attraverso riprese in ordine meramente cronologico.

Partecipiamo al dramma di chi lavora 18 ore al giorno nella speranza di una vita “facile” fatta di bei momenti, e che si ritrova a perdere gli stessi affetti per cui lotta da sera a mattina. Loach “ironicamente” nel periodo natalizio, tra pacchi e pacchetti, volge lo sguardo alle grandi multinazionali ed al sistema di consegna a domicilio, da google ad amazon. Tra il Dio target, le scariche di adrenalina ed uno scenario opprimente e orwellian,o quali sono le reali condizioni di questi lavoratori in un mondo in cui un posto di lavoro è ancora un’ancora di salvezza?

Un sistema che produce la crudeltà e viene mostrata in questo film con: “figliolo devo lavorare, non ho altra scelta, a loro interessa solo il pezzo, la consegna e l’articolo che ho tra le mani”.

Un film che riesce a tessere un filo emotivo ed intimo tra lo spettatore e gli stessi personaggi, come evidenzia anche il cineasta nel corso dell’incontro stampa avvenuto in occasione della presentazione in anteprima del film.

“…che il pubblico abbia a cuore le persone che vede sullo schermo, non sorrida con loro e condivida i loro problemi. Sono le esperienze vissute, riconosciute come autentiche, che dovrebbero toccarci” – prosegue – “Il lavoro viene dato al più veloce, economico ed affidabile per una classe operaia che viene sfruttata oltre al limite, mentre il capo di Amazon è l’uomo più ricco al mondo e questa diseguaglianza così evidente è una cosa che non si può sopportare, come la distruzione del pianeta e ciascuno di quei furgoni brucia combustibili fossili e benzina e questo colpirà i figli dei borghesi, come i figli degli operai” – aggiunge – “In questo film la tragedia è continuare a lavorare in un lavoro molto povero. I sindacati devono riscoprire i loro metodi originari”.

Vogliamo davvero un mondo in cui le persone sono sottoposte ad una tale pressione lavorativa che porta a ripercussioni senza ritorno nelle loro vite e famiglie?

L’evoluzione di un mercato che si affanna nella corsa al miglior rapporto costo e beneficio, un mondo dove si pensa solo a ridurre i costi ed ottimizzare i profitti attraverso la tecnologia e lo sfruttamento e le famiglie sono divise da quella stessa tecnologia e dai troppi impegni. Gli attriti si amplificano e i ragazzi sono resi fragili e ribelli dalla società e dalle debolezze dei genitori, e prematuramente adulti dalle scelte imposte dalla vita di ogni giorno.

Il tema dello sfruttamento è nuovo nel senso che oggi viene utilizzata la tecnologia moderna per farlo. Una tecnologia sofisticata come quella che è nel veicolo del nostro protagonista a cui detta i percorsi e consente al cliente di sapere esattamente dove egli si trova e se è in orario o in ritardo sulla consegna del prodotto” – prosegue Loach.

Un racconto delicato ed elegante, come nello stile del maestro, che nella sua carriera cinematografica si è sempre dedicato alla denuncia delle condizioni dei ceti meno abbienti ed emarginati, rendendo le sue pellicole uno strumento di lotta popolare contro le ingiustizie e le diseguaglianze.

Una storia senza musica, accompagnata solo dal suono delle ruote sull’asfalto, dai bip della pistola che legge i codici e dalle urla di incomprensione, in una sceneggiatura sospesa tra ironia e realtà: “La sai quella del vecchio che soffriva di insonnia? E’ rimasto sveglio tutta la notte perchè si perdeva le pecore”.

Le imposizioni sociali ed il ritmo serrato non lasciano spazio al dolore ed alla riflessione, non prevedono pause per nessuno e si scopre che non sempre “il lavoro nobilita l’uomo”.

“Don’t think and drive” è la scritta che campeggia su un foglio dentro al magazzino, utero de-generativo da cui tutto parte e dove tutto torna, in una danza della “vita” che in un devastante crescendo scuote le coscienze, come Loach insegna.

“I poeti non hanno pudore verso le loro esperienze intime: le sfruttano.”  (Friedrich Nietzsche)

Chiaretta Migliani Cavina

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