“Something in the Dirt” – Recensione: è un bel viaggione da fuori di testa
Il quinto film del duo Benson-Moorhead, è una commedia di genere sci-fi dalla doppia identità e anima
Per chi ama la fantascienza indipendente, quella più creativa e indie, i nomi di Justin Benson e Aaron Moorhead non sono nomi qualunque, ma fanno riferimento a film molto apprezzati dal pubblico di nicchia e dalla critica specializzata come “The Endless”, “Synchronic”, “After Midnight”, “She Dies Tomorrow” e anche ad uno degli episodi della serie “Loki”.
La loro è sempre stata una narrazione in cui la fantascienza si faceva carico di una visione del mondo misteriosa, inquietante, dominata da uno humour indiretto sovente irresistibile, ma anche da elementi strettamente connessi al complottismo, al cinema psichedelico, alla ricerca inutile di un senso nell’universo e nel mondo che ci circonda. Il duo è senza ombra di dubbio una forza emergente nella narrativa cinematografica e televisiva americana degli ultimi anni, sono ospiti fissi al Sundance Festival e hanno sempre centrato, almeno stando alle reazioni della critica specializzata, il bersaglio con una regolarità impressionante.
Al Science + Fiction Festival questa continuità trova conferma in Something in the Dirt, Il loro quinto film assieme, una sorta di mix tra il mockumentary e il thriller paranormale, con elementi della commedia persistenti e indovinati, e una sfumatura new age e controculturale a metà tra omaggio e parodia del pensiero alternativo. Il giudizio finale? Come le loro opere precedenti o si ama o si odia, ma non può certamente mai lasciare indifferenti vista la grande capacità di creare una narrazione molto potente.
In una Los Angeles polverosa, opprimente e molto distante dai cliché hollywoodiani, si incrociano le strade dello scapestrato ex galeotto e perdigiorno Levi (Justin Benson) e del nerd un po’ misantropo John (Aaron Moorhead), vicini di pianerottolo in uno dei tanti complessi residenziali da quattro soldi che compongono l’ossatura della Città degli Angeli.
Levi ha un passato fatto di traumi, solitudine, povertà e anche qualche guaio con la legge, che nasconde dietro un fare avventuroso, bonario e sovente irriverente, è di base un compagnone dall’animo però abbastanza malinconico, fa lavori saltuari e a 40 anni appare ancora molto distante della maturità.
John invece è un individuo solitario, vive grazie al sussidio dall’ex compagno, è un nerd appassionato di regia e controcultura, e quando nella stanza del suo nuovo vicino cominciano a verificarsi eventi paranormali inspiegabili, lo coinvolge in una specie di crociate verso la ricerca di una verità alternativa.
In breve i due si troveranno coinvolti in una sorta di caccia al tesoro che affonda le proprie radici nel passato della città, tra logge massoniche, verità alternative, strani simboli, probabilità di contatti con alieni e fenomeni elettromagnetici inspiegabili. Divertente? All’inizio si, poi con il tempo lì insieme diventerà assolutamente terrificante, porterà i due verso confini spaventosi dagli esiti imprevedibili.
“Something in the Dirt” è senza ombra di dubbio un film affascinante perché non offre un punto di riferimento allo spettatore, che si trova sballottato in un’eterna realtà che da intima, personale, praticamente cinematografica, in breve abbraccia in toto sia l’essenza del documentario, sia quello del mockumentary, ed infine persino l’indagine su queste due realtà in fieri.
Insomma, si tratta di una sorta di nome calderone in cui Benson e Moorhead infilano un po’ tutto quello che gli interessa e gli aggrada, fornendoci continuamente elementi su cui riflettere non solo e non tanto su quell’evento in c’è, ma sul nostro approccio alla realtà.
Perché alla fin fine, “Something in the Dirt” è soprattutto un film simbolo di ciò che è stato il mondo durante la pandemia ma anche ciò che siamo diventati dopo, sulla nostra incapacità di accettare la realtà ufficiale, sulla nostra volontà di connetterci a supposte verità alternative da tutto scevro di ogni ragionevole ricerca di fonti attendibili.
Ma tanto ci basta, perché nella realtà oggi tutti noi vogliamo essere al centro dell’attenzione, tutti noi vogliamo essere protagonisti di un qualcosa di unico, di irripetibile, cambiare il mondo e nel farlo quale mezzo migliore della confutazione perpetua dell’Ipse Dixit, della volontà di sentirsi fautori di un cambiamento radicale che passa attraverso la negazione di quelle verità con cui siamo cresciuti?
Il film ci parla di tutto questo in un modo veramente strano, tipico, il più delle volte appare quasi mandarci completamente fuori strada se non addirittura fuori di testa, visto che i due protagonisti si trovano a vagare per Los Angeles, dentro il loro appartamento, ad improvvisarsi scienziati e ricercatori, coprendosi involontariamente di ridicolo di fronte ai nostri occhi.
“Something in the Dirt” a mano a mano che va avanti però diventa anche un racconto personale, da parte di due sbandati, due marginati, due diversi della norma che non sono mai riusciti a trovare la loro dimensione in questa società, che rimane sempre fuori, l’esterno, esclusa da tutto e da tutti.
Alla fin fine a che ora è il dramma, quello della solitudine esistenziale, in questa specie di deformazione fantascientifica in di quello che era un cult come “Scemo & più Scemo”, dove però il dramma è sempre dietro la porta, si nasconde in piena luce di fronte ai nostri occhi.
Si esce dalla visione di questo film abbastanza impressionati per quanto pure davvero confusi. Ma in fondo è anche questa probabilmente la finalità ultima di Benson e Moorhead: il fatto che cercano di farci comprendere come oggi di certezze non ce ne siano, come ogni ricerca della verità Sì assolutamente vana. Siamo finiti dentro la caverna di Platone, ma le ombre che vediamo sono 1000 volte più confuso di quelle del passato, perché troppe voci avvolgono la nostra mente. Sapere di non sapere è forse l’unica via di fuga. E la fuga, come insegnava Salvatores, è l’unica via di scampo in tempo come questi.
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Giulio Zoppello