“Ritratto della Giovane in Fiamme”: un’affascinante iniziazione alla vita – Approfondimento

“Ritratto della Giovane in Fiamme”: un’affascinante iniziazione alla vita – Approfondimento

“L’eguaglianza è un sentimento dolce da provare”. Un passaggio che rivela la pellicola portata sullo schermo dalla francese Celine Sciamma, una storia fortemente rivoluzionaria ed esplosiva, che attraverso il costume di un’epoca celato in un ardente silenzio, disegna un manifesto dell’uguaglianza e dell’amore universale. Fin dalle sequenze di apertura il film infatti, svela la sua natura intima ed intensa, avanzando a piccoli tratti come la mano che, mentre scorrono i titoli di testa, disegna una figura di donna, unico rumore di fondo il sibilo graffiante del carboncino sulla carta. Una sequenza iniziale impregnata di quel legame con la pittura che sarà determinante, sia dal punto di vista narrativo, che emozionale, attraverso un interminabile flashback.

1770, Marianne, giovane pittrice, viene incaricata di dipingere il ritratto di Heloise, fanciulla ritirata dal convento per sostituire la sorella, forse suicida, nel matrimonio con un nobile milanese, seguendo il piacere della madre desiderosa di fuggire dal torpore del nord della Francia. Impalpabile e misteriosa, Heloise vive in una gabbia sia fisica che emotiva, e volendo ritardare quel matrimonio più a lungo possibile, si rifiuta di posare e Marianne, simbolo delle pittrici “invisibili” del tardo 700, la quale dovrà mentire e imprimere, non solo su tela, i tratti di questa personalità che mano a mano riuscirà a penetrare.

In un contesto dalla mentalità oppressiva, seppur solo accenna e in una “prigionia delle emozioni” che priva Heloise della conoscenza della musica, dell’amore e dell’indipendenza, Marianne raffigura un mondo sconosciuto e diverso, differente anche nella semplicità e nel colore degli abiti e lontano dalle uniche altre due figure che si muovono, la madre di Heloise, interpretata da un’insolita Valeria Golino e una giovane domestica, che diventerà loro complice.

“Essere liberi vuol dire essere soli?”

Un diverso vissuto che verrà a meno nel momento in cui il legame con la futura sposa prenderà forma, un’ammirazione che si trasforma in fascinazione e lascia emergere il germe nascente di un sentimento che andrà ben oltre la semplice stima ed amicizia, divampando come un’asticella d’incenso che brucia. Un avvicinamento che non sarà solo di natura psicologica e avrà come complice un gioco di silenzi talmente marcato da scandire il tempo come un metronomo, silenzi che evocano sguardi e relegano il resto ad una dimensione secondaria. Tutto sembra soccombere alla bellezza delle immagini, alla bellezza di Adèle Haenel, musa della regista con cui anni prima aveva intrecciato una storia e simbolo del desiderio del pubblico, della pittrice e della regista stessa, con una potenza emotiva tale da oscurare anche la tempesta estiva di Vivaldi.

“Ho sentito nella solitudine la libertà di cui mi parlavate, ma ho anche sentito che mi mancavate”.

Dialoghi ridotti all’essenziale, come anche la musica stessa, che accompagna solo due momenti chiave nella pellicola, lasciando che siano i suoni della natura ad amplificare un sentimento nato naturalmente, il rumore del mare impetuoso, il vento nel il fitto groviglio della vegetazione, i passi che scricchiolano sul pavimento ed i respiri affannati, in una metafora pittorica della complessità dei rapporti umani.

Una visione romantica dove la rappresentazione materica degli eventi naturali fa da preludio a scoppi di passione emotiva e fisica. Quadri scenografici che sono veri tableaux vivants, scene prese dalla pittura, da grandi capolavori del romanticismo come le composizioni ed i ritratti di Delacroix e Caspar David Friedrich con il suo viandante, dai colori saturi di tinte naturali, come la terra rossa e l’azzurro cielo o l’ambra delle lampade al sodio nell’illuminazione tra luce ed oscurità.

Un’atmosfera a cavallo tra una cultura antropologica ed il romanticismo di “Cime Tempestose”, ma espresso con una sensibilità contemporanea. Un’opera minimalista e rarefatta, dove ogni cosa i tessuti pesanti degli abiti, la potenza espressiva dei paesaggi e la fisicità degli sguardi, porta alla ribalta quel mondo sommesso delle piccole cose che si erge al di sopra di tutto con immensa austerità e vigore.  Scene suggestive che identificano l’anello che lega cinema e pittura, emblemi della collettività, della condivisione e della parità di sesso, potere e classe, scene corali, come la raffigurazione di un’esperienza particolarmente significativa e violenta o come un sabbat di donne nella notte ed un abito che s’infiamma poco dopo avere intonato un canto “fugere non possunt”, elementi simbolici di un crescendo perfetto e di un amore che ha raggiunto il suo acme.

Una ricostruzione storica attenta nei costumi e nelle usanze, ma disadorna, quasi spoglia, una tavolozza desaturata su cui imprimere i colori dell’animo delle due protagoniste.

Scorci e ritagli di vita senza tempo e spazio e suggestivi movimenti di macchina, attenti nel mettere in scena un tumulto visivo di pensieri ed emozioni, creano un capolavoro che va dritto al cuore, schiudendo le porte di un sentimento universale che si apre alla vita ed alla libertà.

“C’è un grande silenzio dove non c’è mai stato suono. C’è un grande silenzio dove suono non può esserci, nella fredda tomba del profondo mare”, da “Lezioni di Piano” di Jane Campion.

Chiaretta Migliani Cavina

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