“Richard Jewell” – Recensione: l’odissea di un eroe contro il potere di una cieca società
“Basta un pò di potere per fare di una persona uno St****o”
Clint Eastwood torna, dopo il “Corriere The Mule”, a puntare il dito contro la meschinità delle Istituzioni e la loro cecità di fronte al valore di un uomo, un qualsiasi uomo, comune o non, accusato di appartenere ad un clichè sociale determinato esclusivamente dalla sua carriera, personale, politica o cinematografica, dati i semi in esso fortemente autobiografici.
Un amaro racconto sullo strapotere dello storytelling, oramai ovunque, dai media alle menti, dai racconti reali a quelli di pura fantasia, un’arma che rende la massa sorda ed insensibile alla verità. Una parabola morale che inizia mostrandoci il protagonista dieci anni prima del famoso attentato di Atlanta, mentre spingeva un carrellino contenente forniture di ufficio, già con il sogno di diventare una guardia, “per me è importante proteggere la gente” diceva.
Alla Agenzia delle Piccole Imprese tutti lo trattavano come uno scarto della società affibbiandogli nomi spregevoli, lo vedevano come una palla di lardo viscida ed inutile e l’unico che lo trattava da essere umano era Watson Bryant, un avvocato irascibile e controcorrente che diventerà il suo migliore amico salvandogli la vita, interpretato da uno straordinario Sam Rockwell, e vero alterego di Clint Eastwood nella pellicola.
Un film dichiaratamente politico, un ritratto psicologico ed emotivo sulla vulnerabilità del singolo e della sua famiglia minacciata dallo strapotere delle istituzioni.
Richard Jewell viene mostrato al pubblico con lo stesso punto di vista dei suoi aguzzini, lo vediamo a 30 anni in sovrappeso che vive ancora con sua madre Bobi, una monumentale Kathy Bates, un uomo che ha ancora l’animo e l’ingenuità di un bimbo, insieme all’abitudine di prendere le cose un pò troppo sul serio, come si evince dal suo lavoro al college, studia il codice penale tutte le sere ed è attento ad ogni cosa, tanto da meritarsi il soprannome RADAR.
La sua missione è proteggere i cittadini ad ogni costo e durante il lavoro di sorveglianza al Centennial Olympic Park nel 1996, mentre furoreggiano balli, concerti e teppistelli in vena di far festa è il primo ad accorgersi di uno zaino sospetto, contenente una bomba riuscendo così a limitare i danni dell’attentato dinamitardo pianificato dall’attentatore, ritrovandosi d’improvviso ad essere un eroe.
Ma il passo dall’eroe al mostro è breve e dopo una prima parte didascalica e dalla ricostruzione maniacale, focalizzata sul minuzioso racconto dei fatti entriamo nel vero nucleo emotivo del film.
Centoundici feriti e due morti, numeri che potevano essere più devastanti senza l’intervento di Richard Jewell, “Quella sera ho fatto il mio lavoro ed alcune persone sono vive per questo”, eppure questo non basta per fermare un potere sovrano che si nutre della genuinità delle persone e finisce per sbatterle in prima pagina, condannati ad alimentare una triste storia americana.
Complice una giornalista d’assalto, una parassita disegnata come il vero mostro senza scrupoli, “la parodia di una giornalista” come recita in una battuta Sam Rockwell, nonché “seconda” responsabile del martirio mediatico di quella famiglia, dopo l’FBI, simboleggiata dal logo che recita “Fidelity, Bravery, Integrity” ma forse solo a parole, non con i fatti.
I fatti qui dimostrano il contrario, in un’istituzione governativa capitanata da un John Hamm di pura fantasia, eppure così reale nel suo essere spietato e corrotto, incentrato sui soli piaceri materiali, senza alcun interesse per la verità, ma solo alla risoluzione del caso, perseguitando ed invadendo la privacy di una leale famiglia americana, il cui unico difetto risiedeva proprio nel Patriottismo e in quell’ educazione scambiata per debolezza. Combattere i Bud gays, come dice Richard a sua madre, quei cattivi ragazzi ancora liberi per strada, con l’unico vero paladino della giustizia ad essere al centro dell’occhio del ciclone.
“Non sono il governo americano, ma solo tre stronzi che lavorano per il governo americano”.
Un intreccio di tensione e sentimenti, persone perbene lese nella loro intimità da un sistema ottuso e piramidale, mentre Michael Johnson batte il suo stesso record olimpico illuminando d’oro i colori dell’America, di uno Stato che nell’oscurità vuole incastrare un’innocente a qualsiasi costo.
Un calvario che ha la sua punta di diamante in una perla della cinematografia, Kathy Bates ed il suo monologo da madre che cerca aiuto per suo figlio e lo urla piangente davanti ad una platea di giornalisti, complici della connivenza tra media e Stato. Splendida l’attenzione umana ricercata nel rapporto salvifico tra madre e figlio, la commozione di un abbraccio che diventa un faro che illumina un vicolo cieco e buio, la vita claustrofobica del sapersi costantemente osservati.
Primi piani indagatori ed una colonna sonora dolce e sinuosa per un mondo a stelle e strisce messo a nudo da Clint Eastwood, il primo ad aver vissuto sulla propria pelle un’immagine che non corrispondeva alla sua vera identità, intrappolato dai media per i suoi ruoli western e quasi “incapace” di smarcarsi da quell’etichetta. Media impersonificati da Olivia Wilde, che interpreta Kathy Scrugges, l’immagine del pregiudizio nei confronti di chi non sa “rispettare” i ruoli sociali, accusando Jewell di ambire ai riflettori a qualunque prezzo, detto proprio da chi realmente lo sta facendo. Meraviglioso il personaggio di Sam Rockwell, il cane sciolto della vicenda, che crede a ciò che sente e non a ciò che gli viene raccontato, alla realtà e non alle storie di tutti i giorni e senza cibarsi di etichette e pregiudizi, proprio come il regista.
Ma il monito finale è che gli eroi non fanno storia e durano lo spazio di un racconto, mentre i colpevoli sono prelibatezze per una società che ancora oggi ha la ferocia di uno squalo ed inghiotte senza alcuna pietà.
“Se noi conosciamo che errare è dell’uomo non è crudeltà sovrumana la giustizia?”
– Luigi Pirandello –
Chiaretta Migliani Cavina
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