La recensione di Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio in concorso a Cannes 76 e nelle sale dal 25 maggio.
Lo scorso anno, Marco Bellocchio presentò in anteprima nella sezione Première del 75° Festival di Cannes Esterno Notte, un’opera intensa e viscerale attraverso la quale il regista italiano raccontò i drammatici anni di piombo che attraversarono e sconvolsero l’Italia negli anni ‘70, e in particolare l’assassinio di Aldo Moro, statista e presidente della DC, la cui morte cambiò per sempre il volto socio-politico del nostro Paese.
E ora a distanza di un anno, Marco Bellocchio è di nuovo sulla Croisette del prestigioso evento francese, questa volta per raccontare una storia vera, ma con una differente intensità e un più ampio coinvolgimento, considerando il periodo, il protagonista e le parti coinvolte. Una vicenda che ha la stessa potenza in grado di scuotere, mettere in discussione e far riflettere profondamente sul rapporto Stato-Chiesa e Chiesa-Fede.
Rapito, la storia di Edgardo Mortara
Ispirato liberamente da Il caso Mortara di Daniele Scalise (edizioni Mondadori), Rapito racconta la storia di Edgardo Mortara, rapito nel quartiere ebraico di Bologna il 23 giugno del 1858 dalla Gendarmeria dello Stato Pontificio, che all’epoca comprendeva anche Bologna. Con l’ordine della Santa Inquisizione, avallato da Papa Pio IX, i soldati prelevarono il sesto dei figli della famiglia ebraica Mortara, Edgardo, di soli 6 anni, per portarlo a Roma, dove sarebbe stato cresciuto e educato dalla Chiesa.
Secondo la testimonianza della domestica quattordicenne, Anna Morisi, di fede cattolica, e a seguito di una malattia che aveva portato Edgardo vicino alla morte, il bambino era stato segretamente battezzato dalla stessa Anna, per evitare che la sua anima finisse nel “limbo”. Questo sacramento lo rendeva cristiano, e di conseguenza, secondo la legge inappellabile dello Stato Pontificio, non poteva essere cresciuto da una famiglia ebraica.
I genitori di Edgardo, sconvolti, sostenuti dall’opinione pubblica e dalla comunità ebraica internazionale, soprattutto in Europa e Nord America, intrapresero una lunga battaglia legale per riavere il figlio. Tuttavia, Papa Pio IX rifiutò di restituirlo, e mentre Edgardo cresceva nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa si avviava al tramonto con la conquista di Roma da parte delle truppe sabaude, il 20 settembre 1870.
Rapito: Io sono il papa e solo a Dio devo rispondere
La vicenda di Rapito, sceneggiato da Bellocchio insieme a Susanna Nicchiarelli e con la collaborazione di Edoardo Albinati, Daniela Ceselli e la consulenza storica di Pina Totaro, è solo una delle tante storie di bambini strappati alle proprie famiglie per essere allevati da cattolici. Tali storie sono state raccontate anche da David I. Kertzer, Marina Caffiero e Vittorio Messori nel libro Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX – memoriale inedito del protagonista del “Caso Mortara”. Bellocchio racconta questa storia con uno sguardo intenso e una messa in scena che trasuda suggestione, rabbia, sconforto, una volontà di non arrendersi, impotenza, e una forte e doverosa riflessione su una verità scomoda e palese.
Grazie alla contrapposizione di immagini e alla componente onirica con cui alcune scene e concetti vengono rappresentati, Bellocchio esplora, affronta, analizza e spoglia i principi ecclesiastici discutibili su cui la Chiesa si fonda, rivelando la reale frattura tra gli uomini e la fede. Uomini che adorano Cristo ma che non professano la sua volontà, avendone perso completamente il senso.
Ed è così che, come burattini, seguono e assimilano regole senza porsi domande, senza confrontarsi con se stessi, imponendo dogmi solo perché “è giusto così”, fino a fondere, invece di separare, la Chiesa dalla religione e a giudicare gli altri credi come sbagliati. Ma Dio è uno solo, non importa come lo si preghi o lo si invochi: è uno. Questa spaccatura viene evidenziata con emozionante intensità da Bellocchio, specialmente quando il piccolo Edgardo, solo davanti al crocifisso, toglie i chiodi da quel Cristo deluso e rassegnato, che scende dalla croce, si sfila la corona di spine e va via, segnando la sconfitta e la manipolazione del suo sacrificio.
Una Chiesa avida di potere che ricatta e si innalza al di sopra delle altre comunità, costringendo quella ebraica a piegarsi e umiliarsi. Un Papa interpretato magistralmente da Paolo Pierobon, così come tutto il cast, che minacciosamente dichiara: “Io sono il Papa e rispondo solo a Dio”, desideroso di mantenere il controllo sulle persone. Questo atteggiamento, molto probabilmente, farà arricciare il naso a molti e focalizzerà totalmente l’attenzione del pubblico, le cui emozioni saranno enfatizzate dalle musiche originali di Fabio Massimo Capogrosso, ricche di significato personale, dalla fotografia di Francesco Di Giacomo, dalla scenografia di Andrea Castorina e dai costumi di Sergio Ballo e Daria Calvelli.
In Rapito non c’è esaltazione né l’obiettivo di scandalizzare. C’è disgusto, commozione, timore, presunzione e condanna di un fondamentalismo ideologico che accomuna tutte le religioni e, per alcuni aspetti, l’ignoranza, intesa come mancanza di cultura, in ogni singolo dettaglio, inquadratura, e sfumatura di un periodo complesso e difficile da comprendere. Contraddizioni inaccettabili che restano sospese in quell’immaginario limbo che spinse la domestica a battezzare in segreto Edgardo, cresciuto con un’anima tormentata da una fede che ama e respinge. Un’anima divisa da un muro che nemmeno i cannoni dei bersaglieri, entrati a Porta Pia, sono riusciti a scalfire.
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Emanuela Giuliani
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