A Venezia 2024 arriva l’attesissimo lungometraggio del regista italiano, con Daniel Craig protagonista, ma è il risultato è incerto.
Infine, è arrivato il giorno di Luca guadagnino, del suo Queer, uno di lungometraggi più attesi dell’anno, che già era dato per vincitore prima ancora che cominciasse il concorso, carico com’era di attese, curiosità, previsioni e speranze. Ebbene Queer, tratto dall’omonimo e iconico romanzo di William S. Burroughs, è un film molto squilibrato, esteticamente affascinante, ma un po’ troppo furbo, un po’ troppo spezzettato e in generale instabile a livello di atmosfera e iter narrativo a dispetto di un bravissimo Daniel Craig.
Queer, la sinossi
Queer parte da Città del Messico negli anni 50, lì dove una moltitudine di poeti, intellettuali, giornalisti della beat generation, quasi tutti omosessuali e dediti ai vizi come l’alcool e la tossicodipendenza, abbraccia una libertà che sa tanto di decadenza autoindulgente, di esilio doloroso da placare con ogni placebo possibile.
Tra di loro c’è anche William Lee (Daniel Craig) che, come il suo amico Frank, (Jason Schwartzman) porta avanti un’esistenza tanto ripetitiva quanto dissoluta. Omosessuale, dedito all’eroina e alla cocaina, elegante ma chiaramente disperato, si invaghisce senza freno del giovane, attraente ma intimamente freddo Eugene (Drew Starkey). Quando però pensa di aver trovato uno spirito affine, l’altro si dimostra scostante, interessato ad altre conoscenze ed esperienze, in quel microcosmo caotico, pittoresco, molto chiuso in realtà.
Fermamente deciso a passare più tempo possibile con il ragazzo, gli propone di andare assieme in Sudamerica, alla ricerca di una miracolosa pianta tropicale, che si dice possa dotare di poteri telepatici. Ma quel viaggio, naturalmente, avrà degli esiti molto diversi da quelli che lui e il suo giovane compagno avevano preventivato.
Queer, un eccesso di maniera a tratti dominante
Il romanzo Queer ancora oggi è indicato da molti come il più intimo, folle eppure interessante di Burroughs, anche per il suo alto tasso di autobiografia, ed in generale la volontà neanche tanto nascosta di essere scandaloso e dibattuto.
Dopo Bones and All, soprattutto dopo Chiamami con il tuo nome, Luca Guadagnino torna a parlarci degli esclusi, dei diversi dalla norma, ma soprattutto torna a parlarci di un amore impossibile e forse solo immaginato. Lo fa in un film che dal punto di vista prettamente formale e di estetica, è qualcosa di altamente seducente, nella sua componente di alta teatralità, il suo connettersi a Querelle de Brest di Fassbinder, a quel cinema di rottura della comunità LGBTQ. Ma alla fin fine, Queer diventa l’ennesimo gioco di prestigio di un regista potente sì, ma squilibrato, incapace soprattutto di creare una reale transizione di atmosfera, di andare oltre l’effetto.
Daniel Craig ci offre la performance più coraggiosa e da certi punti di vista anche più difficile della sua carriera. Il suo Lee è un’anima spezzata, sprezzante di sé stesso e degli altri, in realtà è profondamente solo, in lui si dibatte l’individualismo autodistruttivo e controproducente che un’intera generazione di autori americani (non solo Burroughs), ha reso un pilastro della narrativa moderna. Il suo volto sgualcito e virile, il suo charme sempre presente anche nella giungla brasiliana o nei peggiori bar, viene intaccato dalla presenza di Eugene. A questo, il bravissimo Drew Starkey sa donare un fascino glaciale, disinteressato, il perfetto ritratto dell’amore non corrisposto, di una bellezza che avvolge un vuoto di empatia e moralità totale, anche di vigliaccheria.
Eppure, Queer non riesce a conviverci appieno di questa avventura, dell’effettiva profondità del suo iter narrativo, abbellito da numerose scene di sesso, dialoghi anche frizzanti, dalla ricerca di questa pianta tropicale che apre ad un secondo e soprattutto terzo atto atipici a dir poco. Guadagnino si lascia andare ad una vena creativa in cui emerge quasi una sorta di abbraccio alla commedia, nonché al body horror che fu, quello di Yuzna in particolare, ad un cinema wannabe psichedelico, che però diventa quasi una sorta di parodia di sé stesso.
Queer ha un fascino magnetico certo, ma oltre al fascino che cosa c’è? Vorrebbe essere come Daniel Craig, il suo protagonista, così sfaccettato, fragile, complicato e avventuroso, ma alla fin fine l’impressione che sia soprattutto come Eugene, una bellissima messa in scena, priva però di un reale significato al di là di quello che il suo disperato amante gli mette addosso, spinto dalla sua stessa solitudine e anche forse dalla volontà di sentirsi un po’ più giovane.
Si era parlato di sicuro capolavoro, nei corridoi della Biennale si era dato per certo il Leone d’oro, in prospettiva si sta già bisbigliando di valanghe di Oscar. Ad essere onesti, già solo in questa biennale ci sono almeno un paio di titoli ben più meritevoli fino ad ora solo in Concorso.
Queer al momento è la conferma che Luca Guadagnino è un grandissimo regista dal punto di vista tecnico, sa come catturare i nostri occhi, sa dare luce e dinamismo ad ogni istante, ma senza una sceneggiatura ben strutturata, rischia di girare un po’ in tondo, di scivolare nell’eccesso di maniera qui a tratti veramente dominante.
©Riproduzione Riservata
Giulio Zoppello
Il Voto della Redazione: