“Pinocchio” – Approfondimento: i burattini non crescono mai

“Pinocchio” – Approfondimento: i burattini non crescono mai 

“C’era una volta……un re. No ragazzi avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno, un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per riscaldare le stanze”.

Nel 1881 nasce dalla penna di Collodi “la storia di un burattino”, che narra le avventure di un pezzo di legno morto ma che vuol vivere ad ogni costo ed oggi, nel 2019, Matteo Garrone lo riporta sul grande schermo, dando vita ad un sogno inseguito da tempo.

La fiaba di “Pinocchio”, dalla morale dominante, con animali personificati come protagonisti che incarnano ognuno una specifica qualità, positiva o negativa, ha origine moltissimi anni prima, nel 564 avanti Cristo, con Esopo ed i suoi brevi racconti ed il suo trasporre emozioni come la verità e la giustizia, la stoltezza, l’apparenza e l’astuzia. Una storia o un male vecchio come il mondo si potrebbe dire, che ha affascinato illustri favolisti come i fratelli Grimm e La Fontaine, fino ad arrivare al cinema con un mediometraggio muto per la regia di Giulio Antamoro nel 1911 e poi al capolavoro di Comencini nel 1972, che tanto ha ispirato Garrone nella sua stesura e nel suo stesso sguardo, insieme alle illustrazioni originali di Mazzanti del 1883, fedelmente ricostruite nei costumi e nei quadri scenici.

La visione garroniana è il perfetto riflesso del libro, imperniata su quel penetrante senso di povertà che permea profondamente l’intera opera e si ritrova anche nel lavoro di Comencini. Un incipit lento ed incisivo, avvolto nei silenzi e nei gesti di un Geppetto invecchiato, dimesso e fragile, mentre cerca di procurarsi in modo disperato un boccone di cibo. Una scena iniziale ammantata di densa malinconia, tra le strade e sulla gente, un intenso velo che trova nell’umile falegname di Benigni una straordinaria interpretazione, icona dell’abbandono della povertà, che si trasformerà in improvvisa ricchezza grazie ad un dono inaspettato.

Il carisma e la presenza scenica dell’attore illuminano la pellicola e la accarezzano con tenerezza, un uomo impoverito dalla miseria e dalla fame e consumato tra ambienti polverosi e malconci ed abiti trasandati, in un affresco, dalla umile dolcezza, saturato dal realismo della condizione umana.

Una cornice emotiva che inquadra immagini suggestive di trascinante bellezza di un microcosmo antropomorfo, acceso da lampade al sodio e dai paesaggi spogli e crepuscolari, evocativi della poesia trasmessa dalla scuola pittorica dei macchiaioli. Un movimento che “sapeva rendere le impressioni che ricevevano dal vero col mezzo di macchie di colori di chiari e di scuri”, perchè il colore per l’individuo è l’unico modo di entrare in contatto con la realtà, nei macchiaioli condizionato dall’intonazione verista e intriso del romanticismo della natura. Una pittura qui pervasa di calore umano ed atmosfere silenti dalla vaga inflessione malinconica, ma dalle tonalità squillanti che mutano al variare della luce, quadri che traggono ispirazione in uno stile di vita che trova la sua cornice ideale tra mura di casa e costumi domestici.  Nelle scene di Garrone ritroviamo lo stesso rifiuto di linee decise, volgendo lo sguardo nello stesso lirismo dei paesaggi rurali, verso viottoli e casette abbandonate e campi assolati. Spazi costruiti come nei quadri di Odoardo Borrani, con luminose e calibrate campiture di colore che infondono quiete nello spettatore. Semplicità cromatiche ed immagini significative ed evocative che passano dai macchiaioli a Hieronymus Bosch, visionario pittore di diavoli e mostri nel giardino dei sogni. Ed ecco prendere vita, come da un’opera del maestro nordico, un territorio ibrido sospeso tra realtà e fantasia, animato da figure grottesche ed enigmatiche, in un linguaggio che coniuga realismo magico alla visionarietà tra medioevo e gotico, in un continuo gioco di contrasti, tra bellezza e disgusto, eleganza e grossolanità.

Ai nostri occhi si mostrano personaggi dai forti riferimenti oscillanti tra Burton e Greenaway, dall’aura soave e pulita come la Fata Turchina e la sua domestica ingombrante e lenta, la deliziosa lumaca di Maria Pia Timo, o il giudice scimmia di Teco Celio che manda in carcere gli innocenti, “perchè siamo in un paese dove…si usa cosi”, una società melliflua e pericolosa che si riflette nello sguardo unto dell’omino di burro, emblema di una malcelata pedofilia. Assistiamo al “burattino con la testa di legno” che si lascia vincere dalle tentazioni e crede ciecamente nel prossimo, lasciandosi ingannare da nemici che credeva amici, come il Gatto e la Volpe di Ceccherini e Papaleo, cattivi rappresentati con unghie lunghe e sporche, intenti a dilaniare bestie tra un’Osteria del Gambero Rosso e l’altra, in una parodia del vivere attuale.

Garrone punta l’attenzione sugli effetti visivi e sulla splendida fotografia di Nicolai Bruel, una meraviglia per gli occhi e per il cuore, anche grazie ad ore ed ore di sapiente trucco, affidato al designer Mark Coulier. Determinante il punto di vista scelto in prevalenza, quello del burattino, con la camera quasi “spilberghiana” posta ad un metro di altezza, per mostrare allo spettatore il mondo così come lo vede Pinocchio, un mondo forse non del tutto ordinario, in quanto non si sorprende affatto nel vedere aggirarsi un oggetto animato. Un oggetto che è un figlio “nato non da un giorno all’altro, ma da un minuto all’altro”, in un paese dove solo gli animali sono puri e salvifici “che bella persona quel tonno” e l’unica via d’uscita è l’amore, quell’amore smisurato tra padre e figlio che sa illuminare ogni cosa, anche il ventre di una balena.

Il viaggio di Pinocchio è il cammino umano verso la consapevolezza e la vita, tra ostacoli e maturità ed è la storia di tutti noi e come diceva Benedetto Croce “Il legno in cui è tagliato Pinocchio è l’umanità”.

Chiaretta Migliani Cavina

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