Peaky Blinders 6, la recensione: l’ultima corsa degli Shelby e l’eredità di una serie leggendaria

Peaky Blinders, la recensione della sesta e ultima stagione di una delle serie più iconiche e acclamate di Netflix.

Tra le serie di genere più riuscite, notevoli e amate degli ultimi anni, Peaky Blinders si congeda dal suo pubblico lasciando un vuoto probabilmente incolmabile. Creata dalla fervida mente – e dalla penna ispirata – di Steven Knight nel 2013 (ma giunta in Italia solo nel 2015), la serie ha accompagnato gli spettatori per quasi un decennio, evolvendosi di stagione in stagione e conquistando un posto speciale nell’immaginario collettivo. Un prodotto che ha saputo coniugare intrattenimento, profondità psicologica e potenza visiva in modo magistrale.

La sesta e ultima stagione, composta da sei episodi come le precedenti e disponibile su Netflix dal 10 giugno 2022, mette la parola “fine” alle vicende della leggendaria famiglia Shelby, conosciuta con il soprannome ormai iconico di “fottuti Peaky Blinders”. Ambientata tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, la stagione affronta uno dei periodi più inquieti e complessi della storia europea: l’ascesa del fascismo e del nazismo, la crisi economica, l’instabilità politica. Un contesto in cui i personaggi si muovono con il consueto mix di eleganza, violenza e tormento interiore.

Il protagonista indiscusso resta Thomas Shelby, interpretato da un Cillian Murphy in stato di grazia. L’attore irlandese dà volto e anima a un personaggio tragico e magnetico, in continua lotta con i propri demoni. Tommy, ormai diventato un potente politico, si ritrova a fronteggiare una crisi esistenziale profonda. Dopo aver tentato di togliersi la vita, salvato solo da un imprevisto e misterioso intervento del fratello maggiore Arthur, cerca nuove ragioni per andare avanti, ma la sua strada è ancora costellata di dolore, vendetta e inquietudine.

Il dolore per la morte della zia Polly – dovuta anche alla tragica e prematura scomparsa dell’attrice Helen McCrory – segna in modo indelebile la narrazione. La sua assenza è il grande vuoto emotivo della stagione, tanto che il primo episodio le è interamente dedicato. Michael, figlio di Polly, interpretato da Finn Cole, si pone come antagonista principale di Tommy, assetato di vendetta e coinvolto in un losco traffico di oppio con una banda di Boston. Un conflitto che assume connotati quasi mitologici, come una lotta tra dèi decaduti.

Parallelamente, anche gli altri membri della famiglia Shelby sono in preda ai loro inferni personali. Lizzy (Natasha O’Keeffe) si trova a fronteggiare da sola la malattia della piccola Ruby, la figlia avuta con Tommy, mentre il fratello Arthur ricade ancora una volta nel baratro delle dipendenze, incapace di trovare pace dopo tutto ciò che ha vissuto e perso.

Dinanzi a un’opera come Peaky Blinders, ci si rende conto della potenza della buona scrittura. In soli sei episodi, Steven Knight riesce a costruire un microcosmo ricco e sfaccettato, in cui ogni dettaglio ha un peso simbolico e narrativo. Le atmosfere cupe e decadenti si sposano con un’estetica visiva fortemente riconoscibile, fatta di ombre, fumo, inquadrature teatrali e un uso della luce che conferisce ai volti e agli spazi una dimensione quasi pittorica.

Non meno importante è il comparto sonoro: l’uso sapiente di brani moderni e rock – da Nick Cave ai Radiohead, da PJ Harvey agli Arctic Monkeys – crea un cortocircuito temporale che amplifica l’intensità emotiva delle scene, rendendo ogni episodio un’esperienza quasi sensoriale.

Ma Peaky Blinders è anche, e soprattutto, un racconto sulla famiglia, sull’onore, sul sangue. I legami tra i personaggi sono al tempo stesso la loro forza e la loro condanna. Il senso del dovere verso il proprio sangue è assoluto, viscerale, e ogni tradimento diventa una ferita che non si rimargina. È una storia di uomini duri e di donne ancora più forti, di padri e figli, di fratelli, mogli e amanti che si muovono come pedine su una scacchiera segnata dalla violenza e dall’ambizione.

Questa dimensione quasi epica viene ulteriormente valorizzata da una regia coesa e coerente: ad eccezione della prima stagione, che ha visto alternarsi più registi, ogni ciclo successivo è stato diretto da un unico autore – nell’ultima stagione è Anthony Byrne a firmare tutti gli episodi – scelta che garantisce una visione chiara e una tenuta stilistica eccezionale.

Anche la fotografia, curata con estrema sensibilità da George Steel, gioca un ruolo cruciale nel determinare l’identità visiva dello show. Le inquadrature ricercate, l’uso espressivo della luce e del colore, l’alternanza di piani stretti e panoramiche grandiose rendono Peaky Blinders un capolavoro visivo, in grado di affascinare tanto per la forma quanto per il contenuto.

In definitiva, Peaky Blinders non è solo una serie TV: è una saga familiare, un affresco storico, un noir moderno, una riflessione sulla perdita, sull’identità, sul potere. Un racconto potente e drammatico che ha saputo evolversi senza mai tradire se stesso, e che ha lasciato un segno indelebile nel panorama televisivo internazionale. La fine di questa serie segna la chiusura di un’epoca, ma anche la nascita di un’eredità destinata a influenzare ancora a lungo il modo di fare e intendere la serialità.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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