“Parasite” – Recensione: l’ineluttabilità delle scale sociali
“Sono ricchi ma gentili”…“No sono gentili perchè sono ricchi”
Una storia di classi sociali in bilico tra vuoti e pieni, salite e interminabili discese, luce e oscurità, il design e la sua mancanza, un’architettura che supporta i dialoghi di una commedia senza clown che si insinua nell’analisi sociale, una tragedia senza cattivi che si snoda con violenza fino a precipitare nell’abisso, in un meraviglioso loop di 132 minuti.
Una scena d’apertura quella di “Parasite” che entra nel vivo con l’inquadratura di una piccola finestra di un seminterrato, una finestra che si affaccia sul livello strada, mentre la camera scende e mostra la famiglia Kim, madre, padre, fratello e sorella. Stanno cercando una rete wi-fi gratuita, perchè quella che scroccavano è stata chiusa e girano come disperati a caccia di un segnale. Un’abitazione angusta e dalle mura putride, in un degradato sobborgo della metropoli con un bagno vero capolavoro dell’assurdo, con il water posta su una parte rialzata e schiacciata contro il soffitto a lato di una finestrella altrettanto ridicola, una soluzione architettonica figlia della disperazione più nera e non della creatività, icona metaforica della famiglia Kim.
Nel tentativo di uscire da quel luogo infame, che vede il mondo attraverso una finestra grande come un monitor da 18 pollici, i Kim elaborano una truffa ai danni della ricca famiglia Park e grazie a stratagemmi ben congegnati diventano tutore, tutrice, domestica ed autista in quella casa lussuosa, edificio contemporaneo opera di un famoso architetto giapponese del tutto inventato. Un gioiello del minimalismo, legno e cemento, ambienti ampi ed essenziali che si aprono alla luce del giardino, un’architettura senza fronzoli costruita sui tagli della luce e delle scale, che salgono alla zona notte e scendono ad un sotterraneo usato come cambusa. Un piano quello della famiglia Kim, che funziona e penetra come una lama nell’ingenuità della famiglia Park, aiutato dalle nevrosi della signora Park, dallo stakanovismo ossessivo di suo marito e dalla noia dei loro figli prigionieri del benessere.
“Ci trasferiremo ed andremo in giardino, perchè lì il sole è più bello che altrove”
Non è lotta di classe, ma lotta per la sopravvivenza, e ad innescare il plot twist della pellicola sarà la scoperta di un nuovo ambiente, un rifugio antiatomico segreto. Cambiando ambienti cambia la storia e ampliando ambienti la storia si evolve e …torna nel regno del rimosso di quel bassi fondo oscuro habitat degli scarti della società, la dimora del non visto, la rinuncia alla dignità umana che scava gallerie sotterranee facendo crollare la struttura ed esplodere la situazione.
Un racconto di insetti, che all’inizio non erano parassiti, ma persone comuni consumate dal tarlo delle loro esistenze. La famiglia Park, con le sue immense possibilità, è una larva del capitalismo, opulenta e perbenista, che si compiace della propria benevolenza e magnanimità, i Kim invece sono tarli che penetrano e si nutrono della linfa di altri individui, scavando gallerie che svuotano le loro stesse sovrastrutture.
“Non lo sai che milioni di persone vivono sottoterra?”
Per arrivare dai Park i Kim non fanno altro che salire, inquadrati sapientemente dal basso verso l’alto e per tornare a casa sembrano scivolare nelle fogne, seguendo il principio di Metropolis, in alto l’elite ed in basso la massa ed adeguando la struttura narrativa alla struttura urbana.
Un linguaggio degli spazi che parla all’inconscio e scale, infinite scale, reali e sottintese, elementi didascalici e simbolici che percorrono tutti, il povero il ricco, il privilegiato e l’escluso, senza mutarne la condizione, pur passando dal mondo di sopra a quello di sotto ed a volte, per averle volute salire troppo in fretta, precipitando inesorabilmente. Scale che accomunano “Parasite” a “Joker”, due pellicole distanti ma vicine, che parlano di emarginati, esseri incompresi che affrontano un’incredibile salita ed al contempo un’infernale discesa.
Un mezzo per riflettere su quanto sia profondo ed ineluttabile il divario sociale, un divario che ha le sue vittime ben delineate e scelte sempre dallo stesso vivaio esistenziale, tranne in uno spiraglio di redenzione, quando viene mostrata l’illusione dell’ascesa sociale, con la musica di “In ginocchio da te” cantata da Gianni Morandi.
Una pellicola che ha illuminato Cannes, un accecante faro puntato sulle dinamiche umane, tra individui e ceti sociali. Una pioggia di emozioni e riflessioni amare, che penetra la mente dello spettatore prima goccia a goccia e poi come un’alluvione improvvisa ed inaspettata, come la vita, vera, vissuta con dolore e cinicamente dissacrata, di noi parassiti.
“E’ una vita senza pieghe, il denaro è un ferro da stiro, il denaro stira tutto”.
Chiaretta Migliani Cavina
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