Papillon, la recension: un remake che non regge il confronto

Papillon, il remake del celebre film con Steve McQueen e Dustin Offman che non regge il confronto con l’originale.

A quarant’anni dalla celebre trasposizione cinematografica del 1973 diretta da Franklin J. Schaffner, tratta dall’omonima biografia di Henri Charrière pubblicata nel 1969, il regista Michael Noer si cimenta in una nuova versione di “Papillon”. Consapevole dell’inevitabile paragone con la precedente pellicola, interpretata magistralmente da Steve McQueen nel ruolo del protagonista e da Dustin Hoffman nei panni del minuto falsario e unico amico Louis Dega, Noer affronta la sfida di tradurre visivamente l’imponente bagaglio emotivo racchiuso nel racconto autobiografico. Tuttavia, il risultato finale si rivela tutt’altro che memorabile.

Accusato ingiustamente e condannato all’ergastolo per un omicidio mai commesso, Henri Charrière, interpretato da Charlie Hunnam, viene soprannominato “Papillon” per via della farfalla tatuata sul torace. Costretto a scontare la pena nella famigerata Guyana Francese, situata tra il Brasile, il Suriname e l’Oceano Atlantico, viene in seguito trasferito nell’infernale penitenziario dell’Isola del Diavolo, la più piccola e settentrionale delle Isole du Salut. Qui, tra condizioni disumane, lavori forzati e lunghi periodi di isolamento, l’uomo subisce esperienze che mettono a dura prova la sua resistenza fisica e mentale.

L’irrefrenabile istinto e desiderio di libertà, mai domato nonostante anni di sofferenza e numerosi tentativi di fuga falliti, viene alimentato dalla presenza del fedele Dega, interpretato da un Rami Malek poco incisivo, all’epoca in procinto di trasformarsi in una delle icone cinematografiche più acclamate nei panni di Freddie Mercury in “Bohemian Rhapsody”. Il legame tra i due uomini, nato da un patto di convenienza (protezione in cambio di denaro), si evolve in una sincera amicizia che rappresenta l’unico baluardo contro la brutale solitudine imposta dal carcere. In età ormai matura, Papillon compie l’ultimo disperato tentativo di fuga, spinto dalla convinzione e dalla speranza incrollabile di tornare un giorno a essere un uomo libero.

Nonostante il coraggio di affrontare un’opera tanto iconica, Noer non riesce a superare la prova. Il film si arena in una riproposizione priva di una propria identità, incapace di distaccarsi dalla versione del 1973 e di costruire un nuovo punto di vista narrativo. Il trascinante vortice infernale che caratterizzava la pellicola originale, con la sua carica emotiva crescente e opprimente, qui si riduce a un racconto piatto e prevedibile.

La nuova versione di “Papillon” non riesce a trasmettere in modo incisivo le angosce viscerali derivanti dalle condizioni disumane del carcere, né a valorizzare l’intensa e profonda forza del legame tra i due protagonisti. La dimensione psicologica della storia, che dovrebbe emergere con potenza attraverso il tormento, la speranza e la determinazione di Charrière, rimane superficiale, impedendo allo spettatore di immergersi pienamente nell’abisso esistenziale del protagonista.

In conclusione, il remake di “Papillon” diretto da Michael Noer si rivela un’opportunità mancata, un’opera che si accontenta di ripercorrere i passi del suo predecessore senza aggiungere nulla di veramente nuovo o significativo. Il confronto con il film del 1973 risulta inevitabile e, purtroppo, impietoso: laddove la versione di Schaffner riusciva a coinvolgere ed emozionare, questa nuova iterazione si ferma a un’interpretazione scolastica e priva di mordente, lasciando nello spettatore un retrogusto di insoddisfazione e delusione.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

5


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