PAPILLON, DI MICHAEL NOER.
A quarant’anni dalla celebre trasposizione cinematografica del 1973 diretta da Franklin J. Schaffner, tratta dell’omonima biografia di Henri Charrière, pubblicata nel 1969, “PAPILLON”, il regista Michael Noer, consapevole dell’inevitabile paragone con la precedente intensa pellicola di successo sopra citata, interpretata da Steve McQueen, nella figura del protagonista, e Dustin Offman nel minuto falsario e unico amico, Louis Dega, nonostante le difficoltà nel dover concretizzare visivamente l’imponente bagaglio emotivo racchiuso dal sentito scritto, ne realizza una nuova versione.
Accusato e condannato all’ergastolo per un omicidio da lui non commesso, Charrière, ruolo affidato a Charlie Hunnam, soprannominato per l’appunto PAPILLON per via della farfalla tatuata sul torace, sarà costretto a scontare l’ingiusta pena inizialmente nella famigerata Guyana Francese, confinante a sud ed est con il Brasile, ad ovest col Suriname e a nord con l’Oceano Atlantico, ed inseguito nel penitenziario dell’Isola del Diavolo, la più piccola e settentrionale delle Isole du Salut, un luogo dimenticato da Dio a largo della costa della stessa Guyana, vivendo l’agghiacciante, surreale esperienza dei lavori forzati e del prolungato isolamento.
L’irrefrenabile istinto e desiderio di libertà mai abbandonato dall’uomo, trascorsi svariati anni ed innumerevoli piani di fuga falliti, appoggiato dal fedele Dega, un Rami Malek decisamente sottotono e prossimo Freddy Mercury nell’attesissimo Bohemian Rhapsody, lo spingerà, in età oramai matura, a tentare il tutto per tutto attuando l’impresa più folle ed estrema mai provata, con la ferma speranza e convinzione di riuscire ad abbandonare finalmente per sempre la maledetta prigione.
PAPILLON, è senza dubbio una prova delicata ed impegnativa, che tuttavia Noer, pur affrontando coraggiosamente, non supera, ottenendo un misero risultato mediocre dall’insoddisfacente, aspro sapore della delusione, a causa di una costruzione priva di uno sviluppo in grado di differenziarsi da quello mostrato nel ’73, relativo al trascinante, crescente vortice infernale vissuto dal giovane impavido rapinatore della malavita parigina degli anni ’30.
Un racconto, in conclusione, incapace di trasmettere non solo le viscerali paure dovute alle condizioni disumane, bensì l’intima e profonda forza proveniente da un legame nato da un’offerta di pura reciproca comodità, protezione in cambio di denaro, e trasformatosi in un rapporto di leale e sincera fiducia, il quale ha permesso a Cherrière di lottare contro l’imposta brutale solitudine, opponendosi silenziosamente con tenace determinazione ad essa, non rinunciando mai all’idea di tornare un giorno ad essere un uomo libero.
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