“Men” – Recensione: a ognuno i propri demoni
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs della scorsa 75esima edizione del Festival di Cannes, “Men”, il nuovo horror del visionario regista Alex Garland, giunto alla sua terza regia dopo i cult del 2014 “Ex-Machina”, candidato all’Oscar e a due premi BAFTA, e del 2018 “Annihilation”, arriverà sul grande schermo delle sale italiane il prossimo 24 agosto distribuito da Vertice 360.
Una storia senza alcun dubbio disturbante quella che Garland offre al pubblico, il quale esplora i timori, i sensi di colpa, le ossessioni, i tormenti emotivi e psicologici causati da un profondo dolore. Un viaggio viscerale nel labirinto dell’inconscio umano, che vede al centro della scena Harper, interpretata dalla candidata all’Oscar Jessie Buckley. A seguito della morte del marito James – un uomo dall’atteggiamento passivo aggressivo e vittimistico oltre che violento, il cui obiettivo ovviamente era quello di mantenere il controllo sul femminino – suicidatosi poiché non accettava la loro separazione, la donna decide di trascorrere del tempo da sola nella rigogliosa campagna inglese, sperando di curare così quella traumatica sofferenza che la accompagna, e riconciliarsi non solo con il mondo circostante, ma soprattutto con se stessa.
Tuttavia, quel luogo riserverà delle sorprese ad Harper, e dai boschi circostanti, si materializzerà qualcosa o qualcuno che inizierà a perseguitarla, e quello che inizialmente sembrerà essere un’inquietudine sottesa si trasformerà ben presto in un vero e proprio incubo, abitato dai suoi ricordi e dalle sue paure più oscure. Sei demoni, uomini, incarnati da un camaleontico Rory Kinnear sinonimo di una mascolinità tossica, che come tarli si nutrono delle colpe a lei attribuite dal compagno scomparso, e che questo le ha scaricato addosso travolgendola completamente.
Una rabbia e odio non suoi, ma che inconsciamente si sono impossessati della sua mente e anima. Sentimenti e risentimenti che spesso le persone riversano sugli altri con una strana convinzione ‘dell’essere nel giusto’, liberando di conseguenza la propria coscienza. Sofferenze ed errori che si insidiano e a cui spesso, inconsciamente, viene lasciato campo libero.
Mancanze difficili da decifrare, comprendere, assimilare, elaborare e scacciare, e contro cui Harper lotterà fisicamente rischiando di annientarsi intraprendendo un angosciante percorso. Una parabola il cui inizio è rappresentato da un tunnel, e si sviluppa tra i paesaggi, metafore, simboli, riferimenti alla mitologia greca, ancestrali e religiosi, come il cogliere una mela, sinonimo di peccato, da parte della protagonista.
Un ritratto accurato e dettagliato quello di Garland, con una prima parte caratterizzata da una profonda tensione e connessione empatica, ma la cui eccessiva e ripetitiva ricchezza di elementi e concetti della seconda parte, soffoca gradualmente la storia, fino ad annullare e spezzare ogni ipnotica analisi e intimo contatto, sia soggettivo che oggettivo, tra il racconto e lo spettatore, tradendo e deludendo le aspettative iniziali.
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Emanuela Giuliani
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