“Mank” – Recensione: cinema fabbrica di sogni
“In questa attività l’acquirente ottiene con i suoi soldi nient’altro che un ricordo, quello che compra appartiene ancora a chi gliel’ha venduto. Questa è la vera magia del cinema”
Louis B. Mayer descrive in questo modo il sogno di Hollywood ai fratelli Mankiewicz e cosa rappresenti la MGM, dove “l’unica stella è il leone”. Siamo nel 1934, Hollywood si chiama ancora Hollywoodland e la golden age sta raggiungendo il picco.
Una frase che penetra nel vero senso del dietro le quinte e mette in discussione un intero mondo, un totem dell’ultima fatica di David Fincher che in questa pellicola omaggia il suo genitore, in quanto lo script è firmato dal solo David Fincher, che scrisse la prima stesura fin dagli anni 90.
Un lungometraggio che vuol essere un viaggio intimo e dilaniante nella golden age e vuole raccontare la genesi di “Quarto Potere” ad opera di Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore geniale ed autodistruttivo al tempo stesso. Una riflessione sulle ombre di un palcoscenico scintillante, sul potere che corrode ogni mente, un affresco socio-politico ed una toccante ricostruzione di un’epoca passata, vera dichiarazione d’amore verso il cinema, quello vero. Uno sguardo alle antiche e patinate radici che ha al contempo la capacità di trasportarci nel nostro presente.
“Non si può cogliere l’intera essenza di un uomo in meno di due ore: l’unica cosa che si può fare è dare l’impressione di averlo fatto”
A cavallo tra il 1930 e il 1940, Orson Welles viene scelto come narratore da Hollywood e Mankiewicz, noto a tutti come Mank, era al culmine della sua carriera, famoso per la sua capacità di tessere dialoghi arguti e brillanti ma poco valorizzato a causa dei ben noti legami con l’alcool e per la sua visione politica, lontana dal super io repubblicano allora imperante negli States.
Nonostante tutto però, Welles lo sceglie per la sceneggiatura di “Quarto potere”, la cui stesura viene elaborata in una casa lontana da qualsivoglia distrazione, mentre Mank si riprende da un’incidente d’auto, motivo che non impedisce a John Houseman, collaboratore di Welles, di metterlo sottopressione, affinchè rispetti la scadenza impostagli.
Fincher mette in piazza la dicotomia scrittura- immagine tra Mank e Welles, tra realizzazione e meriti, alternando momenti in cui ci mostra Mank preso dalla sceneggiatura di “Quarto Potere” a flashback che vedono lo stesso nella writers room della Paramount, o nella grande famiglia della MGM in piena crisi economica , costretta a tagli agli stipendi e “Flashforward” del 1940 e 1942, dove Mank oramai esiliato dallo star system scrive il suo ultimo script come ghost writer e si nasconde alla cerimonia degli Oscar.
“Perchè ne condivide il merito? Beh vede amico questa è la misteriosa magia del cinema”
Una sinfonia polifonica, dalla moglie di Mank Sara, al fratello, all’attrice Marion Davies e al centro un uomo, consapevole della sua eccezionalità, ma insofferente per ciò che rappresenta l’autorità. Un antieroe che ha il volto di Gary Oldman, in un’interpretazione straordinaria dell’immortalità del cinema, che sa essere contemporaneamente ieri, oggi e domani.
L’ingresso di Welles nel cinema diventa l’occasione per una riflessione ideologica sulla nascita di un concetto “super partes”, il concetto di Autore, e Fincher revisiona la storia di “Quarto Potere” e ne consegna la paternità a Mank.
Una pellicola in bianco e nero per omaggiare il cinema che fu, tra chiaroscuri e deformazioni, patina e ombre, una vera illusione confezionata ad hoc, vero e proprio alter ego della capacità del cinema di modellare la realtà e il mondo intorno a sè.
Uno sguardo tra le illusioni dell’epoca, tra cui fake news ante litteram, come i filmati creati alla perfezione dalle Major di produzione al fine di screditare il socialista Sinclair, conducendo l’opinione popolare verso il candidato repubblicano. Fincher ci mostra come i media sono in grado di orientare le masse e le coscienze, illumina le luci su Hollywood, insinuandosi tra l’immagine e la parola, ma sottolineando a gran voce l’importanza della traccia, come sopravvivenza e ricordo.
“Nel socialismo tutti condividono la ricchezza, mentre nel comunismo tutti condividono la povertà”
E’ vero quanto afferma Mayer dicendo che il ricordo e l’emozione di un immagine non si possono possedere , perchè la magia sta proprio nella loro inafferrabilità, Inafferrabilità presente nell’estetica di questa pellicola, che rappresenta a pieno l’essenza dell’arte cinematografica, nella sua perfezione formale, ma sa anche possedere un’anima profonda, che ci conduce al cuore della settima musa , mostrandone dilemmi e contraddizioni nascoste attraverso la complessità di Mank, cuore ed emblema della purezza dell’arte, solo e sfaccettato come un diamante grezzo. Un vero atto d’amore, immenso e sturbante.
“Mi sento sempre di più un topo in una gabbia costruita da me e che riparo ogni volta che si forma un’apertura che mi permetterebbe di scappare”
Mank morirà a 55 anni.
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Chiaretta Migliani Cavina
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