La recensione di: L’Isola dei Cani, il secondo lungometraggio animato in stop-motion diretta da Wes Anderson.
Con il suo nono lungometraggio e secondo film d’animazione in stop-motion, L’Isola dei Cani, Wes Anderson torna a incantare il pubblico con una pellicola che è molto più di un semplice esercizio di stile. Dopo Fantastic Mr. Fox, il regista texano rinnova la sua passione per la narrazione animata e zoomorfa, costruendo un universo dal fascino irresistibile, dove l’estetica sofisticata si fonde con un contenuto fortemente politico. Ambientato in un Giappone futuristico e distopico, il film si muove con disinvoltura tra fiaba, satira sociale e romanzo di formazione, confermando l’eclettismo e l’acume del suo autore. Non a caso, l’opera è stata premiata con l’Orso d’Argento per la Miglior Regia alla Berlinale, suggellando la riconosciuta maestria di Anderson nel coniugare eleganza visiva e spessore narrativo.
La storia ruota attorno al giovane Atari Kobayashi, dodicenne orfano e pupillo del potente sindaco di Megasaki City, che decide di ribellarsi all’autorità per ritrovare il suo amato cane Spots, esiliato sull’“Isola dei Cani” insieme a tutti gli altri cani della città. L’emergenza sanitaria che giustifica questo esilio — un’epidemia di “influenza canina” — si rivela ben presto un pretesto per una più profonda operazione di controllo sociale e discriminazione specista. Attraverso un linguaggio cinematografico raffinato e un’ironia sottile, Anderson smaschera i meccanismi del potere autoritario e le sue dinamiche di esclusione, restituendoci una lettura sorprendentemente attuale e tagliente della realtà.
L’arrivo di Atari sull’isola innesca l’incontro con un gruppo di cani randagi, capitanati da Capo (doppiato in originale da Bryan Cranston), un ex cane da combattimento inizialmente ostile agli umani. Insieme a Rex (Edward Norton), Boss (Bill Murray), Duke (Jeff Goldblum) e King (Bob Balaban), Capo si unisce al ragazzo in una missione che, ben presto, assume le sfumature di un’epopea rivoluzionaria. La formazione del gruppo e il loro viaggio nel cuore di un’isola discarica si fanno metafora di resistenza, solidarietà e riscoperta dell’identità, tanto personale quanto collettiva.
L’uso della stop-motion — tecnica artigianale e laboriosa, qui portata a livelli di straordinaria finezza — diventa un mezzo espressivo potente per costruire un mondo visivo in cui ogni dettaglio è pensato, pesato, rifinito. L’universo di Isle of Dogs è al tempo stesso familiare e alieno, tenero e spietato, animato da una perfezione stilistica che non smette mai di sorprendere. Ogni fotogramma è una composizione visiva in miniatura, un dipinto in movimento, pieno di rimandi culturali e suggestioni cinematografiche, dalla tradizione giapponese fino alla cultura pop occidentale.
Una scelta particolarmente audace è quella linguistica: i personaggi umani parlano prevalentemente giapponese, mentre i cani “parlano” inglese, comprensibile allo spettatore. Questa decisione, lontana dal puro vezzo stilistico, accentua la distanza tra le due specie, rafforzando l’idea di incomunicabilità, esclusione e fraintendimento — temi centrali del film. Eppure, attraverso gesti, sguardi e atti di empatia, i protagonisti riescono a superare queste barriere, restituendo un messaggio profondo sul potere del contatto umano e animale.
Sotto la superficie incantata e ironica di L’Isola dei Cani si cela una riflessione politica e sociale di notevole forza. Il film affronta temi come la propaganda, la disinformazione, la persecuzione del “diverso” e la lotta per la verità, servendosi del filtro favolistico per rendere accessibili — ma mai banali — questioni universali e complesse. Il regime di Megasaki City non è solo la caricatura di un’autorità corrotta: è la rappresentazione di un sistema che manipola il consenso attraverso la paura, e che trova nei più deboli, in questo caso i cani, i capri espiatori ideali.
Tuttavia, Anderson non rinuncia alla speranza. Anzi, L’Isola dei Cani è forse uno dei suoi film più umanisti, in cui il valore della lealtà, dell’amicizia e del coraggio individuale emerge con chiarezza, senza mai scivolare nel sentimentalismo. I personaggi — umani e animali — sono al tempo stesso archetipici e profondamente autentici, capaci di emozionare e far sorridere, anche nei momenti più cupi.
L’Isola dei Cani è molto più di un film d’animazione: è un’opera d’arte contemporanea, un manifesto stilistico e ideologico che dimostra come il cinema possa ancora essere un territorio di sperimentazione e riflessione. Wes Anderson conferma la sua capacità di coniugare la bellezza visiva con contenuti di grande attualità, costruendo un racconto poetico, divertente e provocatorio al tempo stesso. Un film che fa riflettere senza prediche, che diverte senza banalizzare, e che lascia nello spettatore la sensazione rara di aver assistito a qualcosa di unico e necessario.
In definitiva, L’Isola dei Cani è un’esperienza cinematografica da non perdere — per chi ama il cinema d’autore, per chi cerca storie che parlano al cuore e alla mente, e per chi crede ancora che anche una favola possa cambiare il mondo.
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Emanuela Giuliani
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