“Light of my Life”, il ventre generativo del cambiamento, l’innocenza che scolpisce il cuore – la Recensione
“Light of my Life” è l’accendersi di una luce, la luce della vita, la luce della mente, la condizione necessaria per un nuovo inizio in un universo distopico ad un passo dalla fine.
Una cornice post-apocalittica, flagellata da una piaga che sembra aver estinto interamente il genere femminile con al centro un padre che vaga senza sosta alla ricerca disperata di un posto dove possa vedere crescere, al sicuro, sua figlia Rag. Un viaggio alla scoperta dell’altro quello del primo lungometraggio di Casey Affleck, affiancato da una talentuosa ed incisiva Anna Pniowsky.
Un film di genere che si inserisce in un territorio ampiamente battuto da illustri predecessori, ma che da quello stesso genere prende le distanze, riuscendo a ritagliarsi un piccolo ma potente spazio che punta al cuore della cinematografia indipendente.
C’è sempre un tesoro in noi da portare alla luce, un percorso organico attraverso il non rivelato, embrione di tutte le possibilità e vero significato che emerge all’improvviso, come un mare che circonda un’isola.
Ed il fil rouge di questa storia è una favola, la favola della buonanotte vista dalla parte dei reietti, che si interroga sulle scelte della società attraverso il racconto dell’arca di Noè dei “discriminati”, quegli animali che erano stati lasciati a terra, senza alcuna speranza.
L’incipit si sviluppa in un cordone ombelicale fatto di storie avvolte dalla notte, in una lunga scena ripresa senza alcuno stacco del montaggio, storie narrate sotto la protezione di un ventre generativo simbolico, la tenda iniziale, luogo di accoglienza occulto che è il rapporto padre-figlia, scrigno dell’amore.
Il mondo esterno viene appena accennato, volutamente privo di dettagli ad appesantirlo, ridondante nella sua essenzialità, illuminato dalla bellezza della natura ed avvolto da un toccante intimismo, tra scorci rurali, città semi-deserte e paesaggi boschivi.
Affleck ricerca il silenzio di un tempo svuotato dal disorientato vagare e mette in scena un delicato gioco degli opposti, in continui confronti tra spazi aperti e spazi claustrofobici, fra una desaturata devastazione ed un piccolo e luminoso faro della speranza e tra i due protagonisti stessi.
La loro caratterizzazione è perfetta e rappresenta il fulcro dell’intero arco narrativo in un racconto sottile ma intensamente profondo, amplificato da un asciutto minimalismo e dalla viva complicità tra i due attori.
Centrale è il tema del “lasciar andare” in una storia che, scena dopo scena, svela la sua vera funzione, tra istinti e rimembranze, desideri e paure. Rag sta crescendo e lo si vede nella scena in cui i due ribaltano le loro posizioni, prima di dormire, all’interno del ventre-tenda e nella metafora sulla pubertà.
Uno stile ed un racconto segnati dal capolavoro di McCarthy “The Road”, verso cui Affleck mostra un sentimento quasi reverenziale e contaminati da “The Last of Us”, con sequenze pulite e pulsanti che incidono il fondo dell’anima e penetrano a forza il cuore.
Minuscoli flashback descrivono i fatti e conducono ad una riflessione: cosa resta dell’umanità se l’unica cosa che gli rimane è la costrizione a sperare?
L’uomo è figlio della natura e come ogni creatura risponde al principio di Schopenhauer sulla volontà di vivere come sostanza intima di ogni cosa. Ed un padre vive per la figlia in un mondo privo della forza di regole sociali, in una tensione presente in ogni inquadratura, minacciato da chi sembra non avere più nulla di “umano”.
Ma Rag è umana, estremamente umana e nella sua innocenza si dimostrerà anche più forte di suo padre, che è riuscito a crescere una figlia in una società che ha abbandonato ogni forma di civiltà, mantenendo la propria umanità.
Affleck affida la comunicazione all’atmosfera ed alla commozione fatta di silenzi eloquenti. Una regia paziente ed attenta che prende per mano lo spettatore e lentamente lo porta nelle profondità di un sentimento e nella sua naturale evoluzione.
“Che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato? Non ti preoccupare ripetè l’uomo. Prima o poi tutti gli alberi del mondo cadranno. Ma non addosso a noi” – Cormac McCarthy -The Road –
Chiaretta Migliani Cavina
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