“L’Hotel degli Amori Smarriti” – Recensione: la legge delle coppie che durano
“I giorni se ne vanno, io non ancora.” – Apollinaire –
L’ultima fatica di Christophe Honoré, “L’Hotel degli Amori Smarriti”, è una farsa visionaria e malinconica che penetra nelle sfumature della crisi di coppia e ricorda nell’analisi personale il cinema di Allen.
Una pellicola dalla trama introspettiva che si mescola al “teatro dell’assurdo” e mette in scena amori e ricordi, avvolgendo con la nostalgia della giovinezza l’amaro disincanto di un matrimonio che ha smesso di confrontarsi.
Un sentimento d’amore invecchiato e claudicante quello che lega Maria, Chiara Mastroianni e Richard, Benjamin Biolay, sposati da più di venti anni e giunti alla soglia dell’incomunicabilità. Lui scopre all’improvviso, di avere perso i suoi anni migliori per una donna tragicamente disonesta, una moglie che negli anni con lui si è data alla collezione smodata di amanti più giovani.
Così Maria, sorpresa da Richard nei suoi inganni, scappa dall’appartamento e trova rifugio nell’Hotel davanti casa, nella stanza 212, da cui osserva il marito dalla finestra di fronte ed assiste allo sgretolarsi della loro vita.
Un confronto con se stessi e con i propri bisogni, con il passato e con il presente, con il Richard giovane e prestante e l’uomo divenuto adulto.
Realismo e Surrealismo di una coppia e del suo amore presente e contraddittorio, che trova linfa e resurrezione nelle certezze del passato.
“E’ dal passato che facciamo risorgere le certezze dell’amore. L’amore non è mai presente”.
E tra lampade al sodio, un sosia visibilmente ingrassato di Charles Aznavour che rappresenta la coscienza di Maria, un amante dal nome focoso, Asdrubal, e altri centinaia di avventure piccanti, si consuma la catarsi emotiva della donna, con un ritmo a tratti forzato e stanco.
Vincitore del premio Miglior Interpretazione Un Certain Regard al 72° Festival di Cannes per l’interpretazione di Chiara Mastroianni, “L’Hotel degli Amori Smarriti” coniuga un azzardo narrativo ad un linguaggio più teatrale che cinematografico.
“I coniugi si devono rispetto, fedeltà ed assistenza”.
Un percorso inverosimile nella forma attraverso le pulsioni dell’esistenza e sovrapposizioni temporali, ma al contempo estremamente realistico nei contenuti e nella psicologia dell’indipendenza che sopravvive all’amore.
Un’indipendenza di cui Marie ne è l’icona, per la sua spudoratezza e libertà mentale. Il regista sembra esserne attratto in modo quasi magnetico tanto che la camera sembra voler spingersi fin nei meandri del suo essere e della sua mente, che si manifesta in chiave metaforica, attraverso il doppelganger della memoria.
Una pellicola introspettiva e malinconica, incerta come la vita riflessa nella conclusione sospesa, dove si affacciano sentimenti ancora incompresi, di cui si percepisce uno spiraglio, come un timido raggio di sole che illumina un paesaggio complesso ancora da esplorare nelle sue più recondite sfumature.
“Se avete paura della solitudine, non sposatevi” – Anton Checov –
Chiaretta Migliani Cavina
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