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L’anima sonora de I Peccatori, quando il blues incontra l’Irlanda

L’anima sonora de I Peccatori, il film diretto da Ryan Coogler con Michael B. Jordan dove il blues incontra l’Irlanda.

Nel panorama cinematografico contemporaneo, pochi registi riescono a intrecciare con autentica sensibilità storia, mito e cultura popolare, e Ryan Coogler con I Peccatori ha dimostrato di saperlo fare firmando un’opera audace e sorprendente, capace di valicare i confini del genere e del tempo per raccontare qualcosa di profondamente umano.

Ambientato nel profondo Sud degli Stati Uniti, negli anni bui della segregazione razziale, il film si delinea come un viaggio sospeso tra realtà storica e immaginario soprannaturale con la musica, più di ogni altro elemento, a condurre il racconto.

Una presenza viva, pulsante, ponte tra passato e presente, tra Africa e Irlanda, tra dolore e rinascita attraverso cui Coogler ci invita non solo a guardare, ma a ascoltare il mondo con orecchie nuove. La colonna sonora infatti non si limita semplicemente ad accompagnare emotivamente, bensì è un vero e proprio elemento narrativo voce di coloro che hanno resistito, che sono stati oppressi ma mai messi a tacere. In questo contesto, l’incontro fra il blues afroamericano e la musica folk irlandese acquista un significato potente e inatteso: due tradizioni nate ai margini, forgiate dall’esilio e dalla sofferenza, che si scoprono profondamente affini nel linguaggio dell’anima.

Qui LA RECENSIONE: I Peccatori, la recensione: vampiri, blues e peccati d’America

La musica come memoria e resistenza

Nel solco tracciato da opere come O Brother, Where Art Thou? dei fratelli Coen — che scavava nelle radici del folk e del gospel durante la Grande DepressioneCoogler amplia la prospettiva, portandola in una direzione postcoloniale e transculturale. La colonna sonora de I Peccatori, curata da Ludwig Göransson in collaborazione con Raphael Saadiq, è un vero affresco sonoro dell’anima nera americana: un mosaico in cui convivono il blues del Delta, il gospel, il jazz di New Orleans, il soul e persino gli antichi field hollers, ovvero i canti di lavoro intonati nei campi di cotone.

Le performance musicali dal vivo sul set — scelta stilistica già sperimentata in Inside Llewyn Davis dei Coen — restituiscono un senso di immediatezza e autenticità quasi carnale. Il juke joint diventa un tempio profano, uno spazio sacro dove la musica guarisce, evoca presenze, mette in comunicazione mondi distanti. Emblematica, in questo senso, è la scena in cui Sammie (interpretato da Miles Caton) suona una chitarra ‘posseduta’: un momento che richiama il mito di Robert Johnson, il leggendario bluesman che, secondo la leggenda, avrebbe venduto l’anima al diavolo a un crocevia per ottenere il dono del blues.

Il folk irlandese: un’eco di lotta e diaspora

L’intuizione più sorprendente e al tempo stesso coerente di Coogler è l’inserimento della musica tradizionale irlandese. Questo elemento prende corpo nella figura del vampiro Remmick (Jack O’Connell), la cui danza rituale, accompagnata da un sean-nós — canto tradizionale irlandese di struggente intensità — diventa un grido identitario. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una digressione folklorica è in realtà una potente dichiarazione politica: come l’Africa, anche l’Irlanda è stata terra di colonizzazione, carestia, diaspora. E la sua musica — basti pensare a brani come The Foggy Dew o Óró, Sé do Bheatha ‘Bhaile — racconta da sempre il dolore della perdita e la speranza del ritorno, proprio come il blues.

Questa connessione non è nuova alla ricerca musicologica. Studiosi come Angela Y. Davis o Paul Gilroy, nel suo influente The Black Atlantic, hanno evidenziato come culture diverse, seppur separate da oceani e storie specifiche, condividano forme espressive simili nate da esperienze di marginalità e resistenza. In tali contesti, la musica non è solo arte: è atto politico, è memoria collettiva, è radice che affonda anche nella terra più arida dell’esilio.

Cinema, musica e identità: un ponte culturale

I Peccatori si inserisce così in una tradizione cinematografica che ha saputo usare la musica come veicolo di identità e resistenza. Basti pensare a Black Orpheus (1959) di Marcel Camus, dove il mito greco si fonde con la musica popolare brasiliana, oppure a The Commitments (1991) di Alan Parker, che racconta di una band soul a Dublino, mostrando le affinità emotive tra la classe operaia irlandese e la tradizione musicale afroamericana.

In questa chiave si comprende anche la figura del vampiro Remmick: essere millenario che, come i protagonisti di Only Lovers Left Alive (2013) di Jim Jarmusch, si nutre non di sangue ma di arte, musica, bellezza. Il suo canto antico, intrecciato con il ritmo tribale del blues, non è nostalgia, ma riconnessione con una memoria sepolta, con una radice mai recisa.

I Peccatori, un film da ascoltare con il cuore

I Peccatori non è soltanto un film, è un’esperienza sensoriale e spirituale che va ascoltata tanto quanto guardata. La musica — afroamericana e irlandese — non rappresenta solo la colonna sonora della narrazione, ma la sua spina dorsale, la sua anima, è un codice genetico condiviso tra culture che hanno fatto della sofferenza una fonte di forza, del canto un atto di libertà.

Ryan Coogler, attraverso questa sinfonia di identità, ci invita a vedere il blues non come semplice genere musicale, ma come lingua franca dell’anima umana, e ci ricorda che, anche nei momenti più oscuri, la musica resta una torcia accesa: capace di illuminare i luoghi dove la memoria incontra la speranza e dove, nonostante tutto, si continua a cantare.

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Emanuela Giuliani


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