“La Cura”: realtà e finzione non sempre si fondono nella giusta maniera
Corso Umberto, il Rione Sanità, le Terme, la stazione Magellina, l’Hotel Oriente, la prefettura. Strade, angoli, per lo più deserti di una Napoli in pieno Lockdown. Una città spettrale e fuori dal tempo che il regista Francesco Patierno presenta alla 17esima Festa del Cinema di Roma, ne “La Cura”, una personale contemporanea rilettura di “La peste” di Albert Camus, dove i sentimenti, le paure e i conflitti del libro scivolano dentro il disorientamento generato dalla pandemia, con pezzi di realtà che si sovrappongono al testo tanto da annientarlo e finendo per dominare caoticamente e completamente la scena.
“Il film nasce come un libero adattamento contemporaneo de ‘La peste’ di Camus. Quando abbiamo iniziato a fare le riprese, i primi 5 giorni le abbiamo fatte durante il lockdown, quello più spietato. Sono successe delle cose a noi che giravamo, alla troupe, che mi hanno convinto che anche quel materiale sarebbe stato molto interessante da raccontare” – spiega il regista Patierno nel corso della Press Conference – “A quel punto, io che amo molto i meccanismi narrativi non lineari, ho iniziato a pensare a due piani: uno della realtà e un altro della finzione. Due linee che si dovevano muovere alternandosi l’una con l’altra, e poi ad un certo punto del film fondersi in maniera non meccanica. Volevo soprattutto che lo spettatore scivolasse lentamente dentro il film di Camus senza rendersene conto. Per quanto riguarda invece il fatto di non citare la città e determinate situazioni e luoghi, pur essendo palesemente riconoscibili, si è trattato, come noto in questi casi, di una scelta consapevole poiché è un pretesto per raccontarne altro, ci sono infatti i grandi temi nell’opera di Camus che vengono fuori e che a me interessavano, come quello della solidarietà, dell’amore, dell’amicizia tra le persone come unico rimedio contro l’inesorabilità della morte della malattia. Camus, che era un grande cinico, credeva in questa cura, che è poi il titolo del film. In merito alla quarta parete che viene abbattuta in diversi punti posso dire che è una cosa venuta in maniera istintiva, ad esempio nella scena in cui Antonini Iorio sta parlando della realtà, è un personaggio reale, ma nel momento in cui inizia a piangere diventa il personaggio de ‘La peste’ di Camus. Chiaramente in quella scena Di Leva/Bernard, entra in campo e in qualche modo guarda in camera come per chiedere aiuto alla troupe, a chi era sul set, perché non sapeva se aiutarlo o farlo continuare la situazione privata dell’attore. Ovviamente è tutto congeniato e al tempo stesso vero, perché è proprio questo senso di spiazzamento indotto nello spettatore che mi aiutava a raccontare qualcosa di molto più forte.”
Presupposti, intenzioni, aspettative tuttavia non raggiunti, dal momento che un ospedale e i suoi medici e volontari, i funzionari, i commercianti, le persone normali, nel tentativo di mescolarsi con una troupe che sta girando un film sulla peste, in una coralità drammatica asciutta, si trasforma nel racconto dalla lenta e confusionaria narrazione del periodo vissuto che, nonostante il netto miglioramento, non è ancora del tutto superato. Una storia che si allontanata dalla peste a cui si ispira non prendendo mai forma ed aumentare il senso di smarrimento nello spettatore – ulteriormente alimentato dalle scene a camera fissa estremamente teatrali – e a cui sono ben evidenti i riferimenti del virus Covid.
Interpreti de “La Cura”: Francesco Di Leva, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio e Peppe Lanzetta.
“Io ho vissuto un pò tutto il processo sia creativo che artistico” – svela Francesco Di Leva volto di Bernard Rieux – “Nel momento in cui è arrivata l’idea ci siamo subito messi a lavorare alla sceneggiatura assieme a Francesco (Patierno) e Andre Longo. E’ stato un film dove, come avete visto, bene o male la vita degli attori si somma a quella dei personaggi, e mi sono poi accorto che leggendo le pagine del libro, Camus non faceva altro che prendere in prestito il medico Bernard per gridare al mondo delle cose sue personali. Un meccanismo in cui non riuscivi più a riconoscere l’attore e il personaggio da dentro, e che ho avuto l’impressione Francesco Patierno stesse utilizzando gli attori per mettersi al servizio di queste figure. Molte delle scene che avete visto, come quando io mi spoglio fuori dall’appartamento, sono episodi che ci siamo raccontanti mentre scrivevamo la sceneggiatura. Organizzavamo degli appuntamenti per strada al buio, come se stessimo contrabbandando chissà che cosa e invece stavamo spacciando cultura. Parlavamo di alcune cose e tornavamo a casa sentendoci come se fossimo stati contagiati da qualcosa che era nell’aria, quel male per l’appunto di cui parla Camus, e noi non sapevamo ancora cosa fosse il coronavirus. Io tornavo a casa e mi sentivo responsabile della vita dei miei figli, di mia moglie, così lasciavo gli abiti fuori e correvo in doccia a lavarmi e al telefono Francesco mi diceva che questa era la peste, questo contagio di cui non conosciamo la forma, e che in Camus aveva una forma all’interno della peste che erano i topi. Noi purtroppo non ce l’avevamo, era addosso, nei nostri abiti ed era un pò come il finale di Camus, ovvero ‘non festeggiate, non sparate i botti, non accendete musica, perché può ritornare perché la peste è in una poltrona, sulla polvere di un libro, e può ritornare’.
“Per noi tutti è stata un’esperienza indimenticabile ‘La cura perché vivevamo qualcosa che sfuggiva anche a noi stessi, un’incertezza, una precarietà” – afferma Cristina Donadio – “Non sapevamo cosa sarebbe successo l’indomani, e questo rispecchiava il film, un affresco dove ogni personaggio poteva essere ricondotto alla realtà di quello che stavamo vivendo noi e il mondo. Il mio personaggio Cottard ne ‘La peste’, rispecchia la darkside del covid, ovvero di chi ha sfruttato il covid per arricchirsi, e forse è l’unico personaggio di tutto il film che non ha poi un riscatto umano. Ancora una volta quindi la realtà e la finzione si sono sovrapposte.”
“Per me è stato molto interessante perché il personaggio di Rambert si sovrappone moltissimo alla mia personalità, e credo che questo Francesco (Patierno) e Francesco Di Leva mi abbiamo dato questa possibilità perché cercavamo un attore di Milano che andasse Napoli a girare questo film, di conseguenza io e il personaggio collimavano” – dichiara Francesco Mandelli – “E’ stato bello a questo progetto, dove a volte veramente non sapevamo quello che sarebbe successo. Io sono molto curioso ed esplorare questa parte del mio lavoro equivale a togliersi dalla zona di confort e provare una sfida nuova, sinceramente io non ho dovuto fare molta fatica perché bene o male quel personaggio aveva tantissime cose che sono dentro di me.”
“Io ho vissuto il mio percorso in modo allineato al personaggio, costruito con un’attenzione, una dovizia, un’umanità e uno scrupolo tale da parte di Francesco Patierno da non avere mai il dubbio se stessi interpretando un ruolo, se non nella scelta di quello che dovevo indossare e nel suonare il pianoforte, che mi ha permesso di entrare a mia insaputa nel gioco di realtà e finzione magicamente organizzato” – rivela Alessandro Preziosi – “Non ho avuto alcun tipo di cortocircuito, con Alessandro, la vita e la pandemia. Credo che questo sia un’opportunità di lavoro, di amicizia e soprattutto di incontri.”
“E’ stato un po’ come sognare, tutt’ora ho la percezione di aver fatto un sogno. Tutto quel periodo è stato così, non ho dei ricordi precisi di quello che abbiamo fatto, è stata una sorta di pasta magica in cui ci siamo mossi” – dice Antonino Iuorio – “Questo è un piccolo film con una grandissima anima che ha saputo infondere il regista, il quale ci ha scelti uno per uno e portati una situazione di grande condivisione, dove non esisteva più la macchina da presa, dove era tutto vero e sognato. Questo è il cinema.”
“Io e Patierno ci rincorriamo da molti anni, e ci siamo trovato con un personaggio ideato da lui e preso dal romanzo di Camus che avevo letto da giovane, e le cui omelie mi sono rimaste addosso per circa un anno” – aggiunge infine Peppe Lanzetta nel ruolo di Padre Laneleoux – “E’ un adattamento dell’anima che ci porta in una nuova dimensione del cinema, con il coraggio di affrontare delle cose da cui non si può fuggire come il dolore.”
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Emanuela Giuliani