“Judy”: la solitudine di un cuore puro – la Recensione
“Prende qualcosa per la depressione? Quattro mariti, le sembra stia funzionando?”
Un iniziale movimento di macchina che scava nelle viscere di un primo piano intenso e stretto, penetrando nell’anima, un’anima ingenua ed innocente. Un volto pallido con i capelli corvini ondulati che ne risaltano la purezza e una voce nell’ombra che dice “resta qui e diventerai famosa”, ma il prezzo che si troverà a pagare sarà incommensurabile.
Luci ed ombre della star del “Mago di Oz”, dalla voce prodigiosa che l’ha strappata ad un mondo “normale” e trascinata sul set senza alcuna possibilità di svago, privata delle passioni e scoperte della sua età e sottoposta all’uso di anfetamine e sonniferi dalla MGM, per ordine di Louis B. Meyers.
L’inglese Rupert Goold mette in scena un atto d’accusa nei confronti di uno star system disumano ed invita ad andare oltre l’arcobaleno, nel buio che si nasconde dietro quella siepe. Major di Hollywood che non si limitano a fagocitare grandi opere, ma persone in carne ed ossa, come Judy Garland, una storia amara e reale. In questa pellicola, vero atto d’amore per la star scomparsa, la Zellweger non si limita ad interpretare Judy, ma la sente fino a diventarne lei stessa. In un profondo stato di grazia, l’attrice la “riporta alla vita” nelle sue movenze, nel modo di incedere o nel versarsi un drink, nello sguardo e per come trattiene le lacrime chiudendo la sofferenza in sè. Soprattutto quando canta, perchè qui la voce che incanta le folle non è della Garland, ma di Renee.
Continui flashback con lei a 16 anni, mentre dava luce a Dorothy di Oz, aprono un feroce squarcio sulla sua vita, sulle sue privazioni e mancanze, lei che lavorava per 18 ore in uno studio di registrazione, vessata continuamente e sminuita per i suoi denti, le sue caviglie ed il suo peso controllato da farmaci. Farmaci che in età adulta diventeranno la sua dipendenza e la sua rovina, consumata da alcool, barbiturici, povertà e resa fragile da cause legali per l’affidamento dei suoi figli.
“E’ come vivere con il cuore fuori dal corpo fare figli”.
“Judy Garland nata in un baule”, come amava definirsi, in questo film passa dal mago di Oz all’ultimo tour inglese, accettato solo nella speranza di saldare i propri debiti e comprarsi un nido per la sua famiglia.
“La sua voce passa attraverso le orecchie ed arriva al cuore. E’ la sua vera essenza” dicono di lei due suoi ammiratori fuori dallo spettacolo londinese “Talk in Town”. Ma lei è sola, con il passo sgraziato per gravi problemi fisici, il trucco sbavato come la sua vita, in un mondo che osteggia i diversi, a cui lei sente fortemente di appartenere.
“Perseguitano le persone in questo mondo, chiunque sia diverso”.
Un tour che era solo l’estremo e fallimentare tentativo di rilanciare un’artista, sottoposta ad un’attenzione morbosa non per la sua bravura, ma per il personaggio che era diventata, alcolizzata, rissosa, capace di performance straordinarie, ma al contempo di cadere sul palco ed ingaggiare una gara di insulti con il pubblico.
“L’economia va a rotoli e loro pagano per vederti”.
In uno stato di perenne affanno e depressione, “Voglio quello che vogliono tutti, ma sembra che io faccia molta più fatica ad ottenerla” con continui matrimoni che hanno solo mal alimentato una costante ricerca di affetto, nutrimento per un’immensa fragilità.
Una pellicola che si interroga sul vero significato della felicità, su quanto sia fallace e sfuggente e su quanto ci sia di costruito e apparente. Una società spietata, che non perdona nessun cedimento o tormento interiore, soprattutto ad una donna che guarda oltre il palcoscenico, alla ricerca di alleati nel pubblico, di qualcuno che possa comprenderla nel profondo, avvicinarla con semplicità e senza avidità e sia capace di andare oltre.
Ed anche se Dorothy ha percorso l’arcobaleno, il desiderio più grande è avere un luogo dove tornare e dove ritrovarsi, una casa oltre quel sentiero di mattoncini dorati che hanno brutalmente pesato sul suo percorso personale.
“In un posto dove incamminarsi, e camminare deve bastarci. Parla di speranza e tutti ne abbiamo bisogno” come canta “Over The Raimbow”. Una canzone che era rimasto l’unico modo per andare avanti, eppure, nemmeno quel sentiero ha saputo costruire un futuro.
E scoprire, alla fine, che “un cuore non si giudica da quanto ami, ma da quanto riesci a farti amare dagli altri”.
Chiaretta Migliani Cavina
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