La recensione di Indiana Jones e il Quadrante de Destino, il quinto capitolo della saga nelle sale cinematografiche dal 28 giugno
Sono passati quindici anni dalle ultime avventure che hanno visto protagonista il dottor Henry Walton “Indiana Jones” sul grande schermo con Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, quarto film del franchise diretto da Steven Spielberg e scritto da David Koepp. Sono invece passati oltre quarant’anni da I predatori dell’arca perduta (1981) e Harrison Ford è tornato a far schioccare la sua frusta e a indossare il suo celebre fedora come se non fossero trascorse intere stagioni. Presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, Indiana Jones e il Quadrante del Destino riporta il (secondo per alcune riviste, primo per Empire) più grande personaggio cinematografico di sempre nel suo habitat naturale, quello del cinema d’avventura e d’azione, e Ford nei panni dell’archeologo nato dalla mente di George Lucas. Ad accompagnare Ford un cast di tutto rilievo, da Antonio Banderas a Phoebe Waller-Bridge (Fleabag), Mads Mikkelsen (Animali fantastici – Il segreto di Silente, Il sospetto) e Toby Jones.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino: la trama
1969. Lo stimato professore “Indy” Jones (Ford) ha ormai concluso la sua rispettabilissima carriera di professore presso l’Hunter College a New York e si prepara per andare in pensione. La sua vita privata non va a gonfie vele, soprattutto dopo che Marion ha chiesto formalmente il divorzio. Le cose stanno per cambiare e prendono un’inaspettata svolta quando la figlioccia Helena (Waller-Bridge) si ripresenta alla sua porta e lo invita ad accompagnarla in un’avventura alla ricerca di un misterioso manufatto dimenticato, anni prima affidato a Indiana Jones da suo padre: il Quadrante di Archimede, un oggetto forse in grado d’individuare varchi nel tempo. Nel frattempo il giurato nemico di Indy, l’ex nazista Jürgen Voller (Mikkelsen), lavora come fisico in un programma spaziale statunitense che vorrebbe usare il Quadrante per altri allarmanti scopi.
Ultima chiamata all’avventura per Indy
Il cinema d’azione contemporaneo deve fare i conti con le regole e le mode stabilite dal cinecomic attuale, e Indiana Jones (come altri prodotti provenienti da epoche passate) non fa del tutto eccezione. Per questa ragione ruba a quell’universo cinematografico la tecnica del ringiovanimento digitale dell’attore principale per permettere a Harrison Ford, nell’avvincente prologo che apre le danze di Indiana Jones e il Quadrante del Destino, di reincarnarsi non soltanto al suo corpo e al suo volto giovanile mediante un ritorno al 1944, ma anche di tornare in un mondo di finzione che è lo sfondo delle vicende narrate nei capitoli antecedenti a Indiana Jones e il Teschio di Cristallo, ed è una dichiarazione d’intenti: rimediare a quell’errore cancellandolo ed estromettendolo dalla canonica storia evolutiva dell’icona concepita da Lucas. Nel 1944 riletto, Ford veste i panni di un quarantenne Indy in compagnia del collega Basil Shaw (Jones) e alle prese con i nazisti che vogliono impadronirsi di un tesoro di reliquie: fra tutte, in una sequenza di acrobazie e fughe che copre la durata di venti minuti iniziali, viene messa al sicuro la Lancia di Longino, che avrebbe pugnalato Cristo, e il cosiddetto Antikythera, geniale dispositivo ideato da Archimede in grado di plasmare il tessuto del tempo.
Fin qui tutto nello standard, tutto inscritto nella classicità e nella tradizione di Indiana Jones, e il lavoro compiuto sul volto del protagonista riesce, almeno finché Ford non dialoga, a rappresentare l’illusione perfetta. Dopodiché, Indiana Jones e il Quadrante del Destino si ritrova a doversi (e doverci) imbarcare nella vera e propria avventura nel presente, tradotti in quello spazio degli anni sessanta dedicato all’esplorazione spaziale da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica, e qualcosa non va proprio nel verso giusto.
L’eroe dalle cui labbra pendevano tutti gli studenti, in particolare le studentesse, lascia il posto a un uomo distrutto che si aggira fra le carte del divorzio fatte recapitare dalla storica partner d’imprese e di cuore, l’assente e sempre amata Marion (Karen Allen), che aveva sposato nell’ultimo capitolo della saga. Sì, proprio “il capitolo maledetto” (per rimanere in tema), quello bistrattato e che, come presumiamo, verrà necessariamente rivalutato con maggior vigore dopo questo passo che rischia di diventare un inciampo. Jones è più che mai un professore dedito e devoto alla scienza e al progresso tecnologico, che si oppone con decisione alla forza devastatrice della furia nazista che acceca il sapere e la cultura in nome della conquista materiale, violenta. Anche il nuovo personaggio portato in scena da Phoebe Waller-Bridge, brillante nelle vesti della trentenne Helena, apporta un nuovo livello d’intelligenza e di atletismo che deve controbilanciare i limiti posti dal suo partner, più avanti con l’età. Uno la testa, in pratica, e l’altra il corpo.
Un’emulazione dello splendore che fu
James Mangold (conosciuto ai più per il cult Ragazze interrotte) aveva già dimostrato, con la sua versione del classico western Quel treno per Yuma, di poter maneggiare materia preesistente aggiornandola al linguaggio di genere moderno e aveva confermato le sue abilità nella comprensione e nella comunicazione attraverso il codice dell’azione più pura con il recente Le Mans ’66. Su carta è la scelta perfetta per un capitolo (finale?) su un’icona fortemente inscritta in un’epoca, e non stupisce che si sia pensato di affidare a lui la rievocazione di Indiana Jones attraverso un’operazione nostalgia come se ne vedono ormai ogni anno, ma la chimica fra i protagonisti non è esplosiva e la struttura della nuova missione di Indy sembra più il frutto di un calco che di un aggiornamento vero e proprio.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino parla alla schiera di accoliti e di cinefili che ancora amano il personaggio di Spielberg e Lucas come il primo giorno, e che gli perdonerebbe anche fughe impossibili e salvataggi in extremis (all’epoca rubati a James Bond, oggi impensabili per il maturo Harrison Ford) pur di rivederlo all’azione. Gli regala quel che vuole, gli mostra quel che vuole vedere e lo conforta di continuo, permettendogli di avere fiducia nell’immortalità degli eroi del cinema. Non fa, però, molto altro, trasformandosi in un’emulazione un po’ affaticata dello splendore che fu. Si sarebbe invece potuto imparare qualcosa di più proprio dal maledetto Teschio di Cristallo, che al netto delle trovate di dubbio gusto (un terzo atto in pompa magna, alieni su tutto schermo che ignorano i limiti evidenti di una CGI posticcia) s’incastona in modo fedele e rispettoso nella mitologia del personaggio, con un Kaminski devoto a Slocombe e uno Steven Spielberg ispiratissimo e più che mai creativo.
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Federica Cremonini
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