Napoleone è un leader motivazionale; per lavoro cerca di stimolare le coscienze degli altri, ma non riesce a farlo con se stesso. Arianna sta facendo i conti con il lutto della propria figlia e la sua vita sembra ferma a quel giorno. Daniele è un bambino youtuber che, incalzato dai desideri dei propri genitori, vive la propria vita in cerca di followers che non ha mai chiesto. Emilia è una ginnasta artistica che è finita sulla sedia a rotelle prima ancora di vincere un oro. Poi c’è un uomo sfuggente, un’ombra che si materializza davanti a tutti e quattro nel momento in cui questi decidono di porre fine alle proprie sofferenze.
La proposta è questa: rimanere in una sorta di limbo in cui il tempo e lo spazio sono soggetti a regole diverse da quelle terrene, in cui nessuno può vederli e né toccarli. Una dimensione sospesa, un non-luogo in cui Napoleone, Arianna, Daniele ed Emilia possono ragionare su una seconda possibilità prima di farla finita.
Paolo Genovese ha sempre preferito i racconti corali a quelli singolari, i gruppi agli uomini soli. Sono sempre solitari i personaggi di cui tratta ne “Il primo giorno della mia vita”, ma costretti alla condivisione; personaggi che ambiscono alla solitudine e allo stesso tempo ne subiscono i contraccolpi peggio di chiunque altro, contesi fra il voler cambiare e il desiderio di continuare a perseverare nel dolore, con la paura che anche questo possa finire per abbandonarli.
Personaggi che, come quelli di “Perfetti Sconosciuti”, vengono colti nel momento critico in cui le circostanze dell’esistenza che hanno condotto li portano a riflettere su chi sono stati e chi vogliono essere, ma soprattutto su come fare per cambiare (ammesso che sia possibile).
“Il primo giorno della mia” vita inizia come una luttuosa meditazione sul dopo-vita, pur chiarificando che nessuno è (ancora) morto, dalle atmosfere rarefatte e quiete, cariche di mestizia e nostalgia per la felicità che si è provata. Poi finisce per trasformarsi in un viaggio collettivo, assaggiato a piccolissimi pezzi e per piccoli passi, verso un futuro che solo i protagonisti potrebbero negare o consentire a loro stessi. Un dramma, quello di Genovese, che ha richiesto circa quattro anni di lavorazione prima di poter vedere la luce.
Con una sceneggiatura scritta insieme a Paolo Costella, Isabella Aguilar e Rolando Ravello, “Il primo giorno della mia” vita affronta la materia del suicidio con una partecipazione emotiva che mancava dai tempi di “The Place”, di cui pure Genovese recupera la dimensione evanescente, alcune figure (l’uomo del mistero, Toni Servillo, riveste la stessa funzione che era affidata al Valerio Mastandrea di quel film) e la tendenza introspettiva che si nutre del confronto a due, sorretta sulla vincente idea high-concept alla base della struttura narrativa. Risulta come la naturale conseguenza delle sfide odierne post-pandemiche quella di veder proliferare film sullo stesso tema (si ricordi il recente “Tous s’est bien passé” di François Ozon), in grado di ragionare sulla scelta di porre fine alla propria vita come unica strada contemplata. Se non è possibile avere la felicità, nessuno neghi a questi personaggi la cessazione della sofferenza.
Tuttavia, il racconto di Genovese sembra smarrirsi in un’ambizione autoriale che supera la genuinità d’intenti e imbocca la strada dell’autocompiacimento, optando per dialoghi che vorrebbero scandagliare il senso più profondo delle cose ma non riescono ad andare oltre la suggestione e il suggerito, oltre la superficie. L’analisi sui personaggi, poco efficace, non viene arricchita dalle performance attoriali, che in Margherita Buy e il giovanissimo Gabriele Cristini trovano sicuramente la coppia d’interpreti più convincente.
Servillo e Mastandrea si fronteggiano in un duello fra doppi, due uomini con uguale anima e colti in diverse fasi esistenziali, che non riesce a spiccare il volo e rimane ancorato in un film che esibisce le angosce (offrendovi soluzioni piuttosto scontate) senza riuscire a guardarvi a fondo.
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Federica Cremonini
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