Il Prigioniero Coreano – Recensione
Una dura analisi quella mostrata dal noto regista orientale Kim Ki- duk, nel: Il Prigioniero Coreano, una rappresentazione nuda e cruda del confronto, infinito tira e molla, tra le due ideologie socio-politiche, che divide la Corea, il quale non prevede vincitori, bensì l’esclusiva supremazia di entrambe sull’essere umano, che ne inibisce la volontà, umiliandola fino al completo annientamento, in modo da poterla plasmare, e manipolare, a proprio piacimento, celando la concreta indole dittatoriale, attraverso la falsa maschera di un ipocrita correttezza, di giustizia e libertà.
“Più forte è la luce, più grande è l’ombra.”
Una realtà vera e potente, priva di filtri, riguardante la spinosa, tutt’ora invariata, situazione che vede ognuna delle parti reclamare a gran voce, utilizzando qualsiasi mezzo, le proprie discutibili ragioni, l’una vantando il benessere dello sviluppo economico, l’altra considerando tale progresso una forviante tentazione, dal quale proteggersi mantenendo la dovuta distanza.
E sarà proprio da queste che il giovane pescatore Nam Chul-woo (Ryoo Seung-Bum), si troverà, suo malgrado, a combattere, opponendosi con tutte le sue forze, nel momento in cui, a causa di una avaria al motore, trascinato dalla corrente delle acque, oltrepasserà il confine finendo nella capitalista Corea del Sud.
Accusato di spionaggio, e sottoposto ad un violento interrogatorio, nonostante la proposta di diserzione con la prospettiva di un tenore di vita migliore, Nam, desideroso di tornare a casa da moglie e figlia, non si lascerà convincere, neanche, quando i funzionari decideranno di attrarlo a loro, lasciandolo solo per l’immensa Seul, a contatto con le tante opportunità offerte dalla città.
Esperienza che sgretolerà, completamente, ogni certezza sulla quale si basava l’intera esistenza dell’umile uomo, innescando un’inevitabile, devastante analisi introspettiva, che si concluderà, una volta tornato in patria, e subendo il medesimo brutale trattamento prima di poter tornare tra le braccia della propria famiglia, con una forte presa di coscienza, e la conseguente dolorosa consapevolezza, da sempre negata ed ignorata, di appartenere all’enorme esercito di marionette nelle mani di valori, principi e leggi, apparentemente differenti, ma colmi del medesimo vuoto.
Il Prigioniero Coreano, presentato alla Mostra di Venezia nel 2016 nella sezione Cinema nel Giardino, è una pellicola che coinvolge colpendo con la forza di in un pugno nello stomaco, un racconto incisivo, privo di inutili congetture ed intuizioni, dalla visione attenta, che commuove, e fa riflettere, lasciando l’aspro, inesorabile, sapore della sconfitta, su una situazione lontana dalla nostra società, per tempo e spazio, che si fatica ad accettare e comprendere, pur conoscendone le origini.
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