È il 1923. Una guerra civile infierisce sulla terraferma irlandese, e dall’isola di Inisherin, dove tutto sembra quieto e il tempo sembra fermo, se ne sentono solo gli echi. La vita degli abitanti dell’isola prosegue indisturbata. Anche Pádraic (Colin Farrell), come ogni giorno, si reca al pub che frequenta da sempre per incontrare il suo amico Colm (Brendan Gleeson).
Solo che stavolta qualcosa è cambiato, almeno per uno dei due: perché Colm ha deciso, senza apparente spiegazione, di spezzare il rapporto che lo tiene unito al “noioso” amico da anni. Distrutto, Pádraic cerca di farsi chiarire i motivi di questa scelta assurda tentando la conversazione, ma Colm è più determinato che mai a non rivolgergli più parola.
Sono passati undici anni da “In Bruges”, dove la coppia di sicari Farrell-Gleeson veniva mandata nella città belga perché potessero trovare pace nel profondo della propria coscienza. Lasciato da parte il risvolto roeghiano (“Don’t Look Now”, 1973) sul piano cinematografico e quello pinteriano sul piano drammaturgico, Martin McDonagh ha poi indagato i meccanismi di genere nell’inglese 7 psicopatici e quelli della violenza nell’americano “Tre manifesti a Ebbing…Missouri”, solo per poi fare ritorno a casa.
Interamente girato fra Inishmore e Achill Island, “Gli spiriti dell’Isola” fa parte di una trilogia teatrale dedicata alle tre Aran Islands e che nel cinema ha trovato la sua conclusione, dopo i capitoli “The Cripple of Inishmaan” e “The Lieutenant of Inishmore”.
È un film, “Gli spiriti dell’Isola”, che trova nella soluzione della sospensione il suo linguaggio e la dimensione ideale, dimostrando l’ormai piena maturità del McDonagh narratore e regista nella gestione dei toni. Anche i generi non sono più oggetto di riflessione cerebrale sul cinema e sui tropi, bensì strumenti per scandagliare il senso sotteso di una storia e restituirne l’autenticità, attraverso una tragicommedia che è profondamente radicata in Beckett e nell’assurdo, nell’indagine dell’uomo contemporaneo e nel mondo dell’eterna attesa.
Le “banshees” del titolo originale (“The Banshees of Inisherin”) non sono i generici “spiriti” del titolo italiano: sono spettri piangenti, propriamente irlandesi, che si manifestano soltanto a coloro che sono prossimi alla morte. E proprio dinanzi alla morte la scelta di Colm, apparentemente insensata, acquista un significato quasi ovvio: che sia per ordine della sua banshee o per timore di poterla un giorno vedere, l’uomo è illuminato da un’epifania angosciante che gli suggerisce di sostituire un’amicizia sterile con la musica, una compagnia dolorosa con una solitudine più appagante, e che possa almeno graziarlo per lo spreco di esistenza che non trova perdono nemmeno da parte sua.
C’è qualcosa di soddisfacente e catartico nell’ironia di McDonagh, nel crudele coraggio di Colm che dà voce e rappresentazione ai desideri impronunciabili, fuori dallo schermo, da coloro che continueranno a costruire per tutta la vita quelle cose, quando arriverà il fantasma, diverranno rimorsi. La crisi esistenziale, spesso destinata a rimanere aperta, è qui risolta con lucidità.
McDonagh conferisce ai rapporti umani un’ambiguità mai trovata prima, in grado di funzionare da vera e propria struttura. Poco e nulla succede, ne “Gli spiriti dell’Isola”; sono le domande stimolate, è la tensione generata da una conciliazione impossibile (perché negata) ad accompagnare lo spettatore fino all’epilogo. Pádraic è stupido o egoista? Forse una risposta può arrivare dalla terra al di là del mare, quella macchiata del sangue di un conflitto subentrato a un altro conflitto.
È un dramma individuale ma anche collettivo quello raffigurato da McDonagh, abile nel tessere la sua narrazione su più piani di lettura. I due amici sono due coscienze scisse, due sistemi di valori, due parti in guerra: amici che avevano una volta condiviso gli ideali dell’indipendenza si riscoprono ora sconosciuti e separati dinanzi all’urgenza della vera libertà, che conduce i rimasti verso un’ultima battaglia. Si rivedono quelle concessioni mendaci (il Treaty) che si ritorcono contro il paese stesso, e che lo fanno con fratture interne ancor più sanguinose. È il paradosso della storia, rappresentato su piccola scala.
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Federica Cremonini
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