Gli Anni più belli – Recensione: la circolarità del tempo in amicizia ed amore

“Gli Anni più belli”: la circolarità del tempo in amicizia ed amore – la Recensione

“Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai” –  da “C’eravamo tanto amati”

Una pellicola imperniata sull’amicizia e su di un’umanità densa di imperfezioni, governata da un’unico motore, il tempo. Un tempo scandito dagli stessi personaggi, nelle loro storie durante quarant’anni di vita privata e pubblica e da avvenimenti significativi e reali. Un romanzo popolare che passa dagli anni di piombo alla caduta del muro di Berlino, le monetine di Craxi e la Tangentopoli di Di Pietro degli anni 90, al 2001 delle Torri Gemelle ed Osama Bin Laden, per chiudersi sull’epoca connessa degli smartphone e sul “movimento del cambiamento”.

Anni più belli che non hanno un’età, ma un tormento interiore che muta nel tempo e con il tempo e passa dall’incontro di Paolo e Giulio spaventati con un Riccardo sanguinante, che apre uno squarcio su un futuro migliore ad un orizzonte che si chiuderà quando diventeranno adulti.

“Non lasciate che sia il mondo a definirci, siate voi a definire il mondo”.

Una storia pregna di cuore, complessa ed ambiziosa, anche se eccessivamente dilatata e retorica, che volge uno sguardo deciso al cinema del passato, nella tecnica e nella struttura narrativa, passa dalla commedia al dramma e ricorda, anche fin troppo da vicino, Ettore Scola in “C’eravamo tanti amati” con citazioni “mancate” de “La Dolce vita” e “Dramma della gelosia”.

Giulia, Gemma, Paolo e Riccardo si conoscono da una vita. Gemma, l’unica senza cognome, è quella con meno dignità, tipicamente nelle corde della Ramazzotti, un personaggio che ha subito privazioni affettive ed è alla ricerca di un battito di vita in ogni sguardo. Un personaggio ibrido, che attraversa le vite di Giulio e Paolo come un immenso buco nero, ma sapendole trascinare poi “a riveder le stelle”, un’entità a sè fortemente coesa agli altri protagonisti e riflesso del tempo che cambia.

“Non fare mai compromessi. Le cose devono andare bene per te, non per gli altri”.

Scene iniziali vibranti di giovinezza ed ardore cedono il passo ai protagonisti dell’età adulta, dalla trasformazione fisica “fuori tempo” nel vedere lo stesso attore, come Pierfrancesco Favino o altri, seppur con l’aiuto “prezioso” del trucco, interpretare un neo laureato e poco dopo un cinquantenne. Un’età adulta che indugia nelle scene della quotidianità, anche fin troppo, rendendo il ritmo stagnante, anche se frutto di una scelta volutamente intimista ed incentrata sull’interiorità dei personaggi, con un risultato ordinario e smielato al pari di una fiction.

La volontà di sovrapporre il cinema alla vita si scontra con una dura realtà e si disperde in una scrittura poco innovativa ed estremamente ridondante, caratterizzata, come nei precedenti lungometraggi di Gabriele Muccino, da scene madri e discussioni urlate. D’altro canto, elemento di talento di quest’ultimo è la sua tecnica, tra piani sequenza, in uno stile che ricorda “Nuovo Cinema Paradiso” e primi piani, alla ricerca costante dell’anima di un cast in stato di grazia, in particolare Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria.

“Tempo che hai capito dove hai sbagliato sei vecchio ed il tempo ti porta via”.

Un inseguimento con la macchina da presa della gioia e della disperazione, per aumentare la carica emozionale della scena. Una visione corale che esalta il senso di sconfitta e di rimpianto dei personaggi, ognuno simbolo di un pezzo di società, in un paese in tumulto e in costante cambiamento. Paolo, Kim Rossi Stuart è un uomo che non cede al compromesso, ma eccessivamente contemplativo e debole e lo è anche nei sentimenti dove, tra alti e bassi, in quarant’anni continua a credere strenuamente nell’amore per Gemma. Giulio, Favino, è l’idealista che scende a patti con il potere, ambizioso e corruttibile, coltiva le sue ambizioni individualiste, mentre Riccardo è preda della mediocrità e del fallimento, sia personale che politico.

“Un giorno capirai quanto è facile sbagliare”.

Mentre il film di Scola con il suo simbolismo segnava, per l’innovazione della scrittura e lo stile del racconto, una rivoluzione nel panorama della commedia italiana, Muccino non sorprende affatto, ma riecheggia e straborda.

Notevole la colonna sonora, tra musiche di Nicola Piovani e l’inedito di Claudio Baglioni che dà il nome al film e interessante l’esordio di Emma Marrone, in un ruolo minore ma incisivo, di una donna piena di speranze annegate nel rancore di un matrimonio fallito fin da subito.

A completare il nutrito cast il rientro di Nicoletta Romanoff, dal personaggio intrigante che tesse giochi di potere e tenta l’anima corruttibile di Giulio fino a sposarlo.

Muccino mette in scena la capacità di credere ad un mondo migliore ad ogni costo, costruendo un inno alla determinazione sulle note del tempo, un tempo che non è solo un costante divenire, ma una panacea per curare il male fatto a se stessi ed agli altri, ritrovandosi ed aprendosi a chi ci conosce nel profondo e sa andare oltre le maschere della società.

“Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici? Chi vince la battaglia con la coscienza ha vinto la guerra dell’esistenza” – da “C’eravamo tanto amati”

Chiaretta Migliani Cavina

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6


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