La recensione di Finalmente l’Alba, il film di Saverio Costanzo in concorso all’80esima Mostra Cinematografica di Venezia.
Finalmente l’Alba si guadagna tranquillamente la palma di film più atipico visto fino ad ora in questa rassegna veneziana. Saverio Costanzo opera un’analisi complessa, o meglio una decostruzione, spostando al femminile la narrazione cinematografica fatta fino ad oggi del mito romano, della Dolce Vita, degli anni di Cinecittà e delle star in via Veneto. Il risultato finale è interessante, arguto, una ventata di freschezza come cinema italiano non mostrava da tempo, soprattutto qui alla Biennale. Di certo un’opera divisiva che non mancherà di suscitare entusiasmi così come pesanti critiche.
Finalmente l’Alba, una ragazza persa nella Dolce Vita
La giovane Mimosa (Rebecca Antonaci) è una delle tante ragazze della Roma appena uscita dal secondo dopoguerra, la Roma dove il cinema ha trovato una casa accogliente, dove vengono sfornati grandi titoli, con grandi star, e lei è una delle tante che sogna in segreto di far parte di quel mondo.
L’occasione giusta, come sempre accade, arriva per caso, seguendo sogno di qualcun altro, sua sorella in questo caso, da tutta indicata come più bella, più sensuale. Eppure, è lei ad attirare le attenzioni della diva Josephine Esperanto (Lily James) e della star Sean Lockwood (Joey Keery) e dal set ecco la precipitata nella notte di Roma, in perfetta controtendenza alle stringenti regole della famiglia che la vorrebbe sposata con il noioso e pingue poliziotto Angelo (Giuseppe Brunetti).
Partendo da quella fuga nella stessa vettura della star, con un Willem Dafoe da fare da mite e cortese Cicerone, il sogno diventa in fretta incubo, grazie ad una sceneggiatura che è bravissima ad omaggiare un triste mistero di quegli anni: la morte di Wilma Montesi. Mimosa è qui il simbolo dell’innocenza, della timidezza, del fascino infantile verso quel mondo, così strano, così dorato, di cui però velocemente apprende le brutali e barbare regole, la falsità e l’assenza di un vero affetto.
Palese e voluto il suo ricalcare La Dolce Vita di Fellini, di cui però Costanzo di dà una variazione al femminile, abbiamo Mimosa, indifesa e insicura, invece del mellifluo Marcello di Mastroianni, una ragazza che deve sfuggire a mani lunghe. Abbiamo quei festini su cui si favoleggiava ma che in realtà erano il prolungamento della cultura patriarcale di ieri, che poi è sopravvissuta fino ai nostri giorni. Mimosa è il nuovo fiore da cogliere, il sesso è ovunque, è in Josephine, è in Sean, è nelle stanze buie di una villa decadente, modaiola per ostentazione, priva di una vera identità.
Finalmente l’Alba, Il mito del cinema distrutto dalla verità
Finalmente l’Alba è lungi dall’essere un film facile, al netto di un’ironia e una giocosità che sono un prolungamento della sua volontà di essere anche leggero, d’intrattenimento. Di base somiglia a una sorta di Cappuccetto Rosso nella Roma dell’epoca, il cinema è fascino ma anche platealità, è peccato e desiderio.
Lily James fa della sua Josephine il volto metaforico ma infine reale delle tante dive, delle tante attrici divine per il pubblico, disgraziate nel privato, con maschere da indossare sempre e comunque, in ogni luogo, in ogni occasione, con ogni pretesto. Incantevole, sensuale, disgraziata, è però distante dall’essere innocente, è armata della crudeltà delle vittime che amano esserlo. Il Sean Lockwood di Keery è i tanti divi da una notte e da un momento, è l’insicurezza maschile di chi vorrebbe essere ma non è. La stessa Roma è trasfigurata, se ne mostra un lato nascosto persino dietro l’ovvietà di Piazza di Spagna, di Cinecittà, dei ristoranti dove ancora oggi i turisti lasciano capitali.
Davvero è esistita la Dolce Vita? Oppure era una favola, una leggenda, consumata con la stessa voracità con cui gli uomini di quel mondo divoravano giovani corpi femminili carichi di illusioni e sogni? Roma è diventata un mito per il cinema, dal cinema per il mondo, la Città Eterna però torna ad essere di donne, di persone, il sogno è una leonessa che vuole essere libera come Mimosa, costretta dentro una vita che non vuole, due lati della stessa tristezza che le donne in Italia devono continuare ad accettare, sperando di non esserne azzannate.
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Emanuela Giuliani
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