El Jockey (Kill the Jockey) di Luis Ortega con Úrsula Corberó e Nahuel Pérez Biscayart in concorso a Venezia 81.
Úrsula Corberó, la Tokyo de La casa di carta, insieme a Nahuel Pérez Biscayart, attore argentino vincitore del César per 120 battiti al minuto (2017) e interprete del tragico e toccante Lezioni di persiano (2020), insieme sono i protagonisti di El Jockey (Kill the Jockey) di Luis Ortega, dramma surreale, tragico e ironico in concorso alla 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
El Jockey (Kill the Jockey) segue la storia di Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart), fantino nelle corse di Buenos Aires, ormai sul crinale del tramonto a causa della sua dipendenza dall’alcool e dalle droghe che mina il suo talento leggendario e la sua relazione con la moglie Abril (Úrsula Corberó), anche lei fantino ma in ascesa. Il giorno della gara più importante della sua carriera, che lo libererà dai debiti col boss mafioso Sirena, Remo ha un gravissimo incidente. Ricoverato in ospedale, si riprende incredibilmente e fugge cominciando a vagare per le strade di Buenos Aires. Libero dalla propria identità, inizia a scoprire il suo vero io, mentre gli scagnozzi di Sirena gli danno la caccia.
El Jockey (Kill the Jockey), il realismo magico della poetica argentina
Bizzarro, tragico, surreale eppure logico e divertente, El Jockey sfugge ad una definizione di genere per regalare allo spettatore un’esperienza del tutto inattesa su un percorso giocoso ma profondo. Il regista Luis Ortega (L’angelo del crimine, 2018), definito una delle voci più impressionanti dell’Argentina, con quest’opera, da lui anche scritta insieme a Rodolfo Palacios e Fabián Casas, riesce a raccontare il tormento della ricerca di identità insieme allo stordimento dato da un mondo che può restituire alla persona un’immagine di sé ogni giorno diversa.
È un gioco divertito il suo, ma al tempo stesso riflessivo sullo scontro tra il mondo interiore e quello esteriore. El Jockey è il racconto originale, a tratti onirico, ma profondamente coerente di un personaggio inizialmente intrappolato in uno schema generato proprio dal suo talento. Remo è un fantino dalle doti straordinarie, ma è proprio il suo talento a renderlo schiavo di un sistema corrotto sia al livello sociale che intimo e personale. Ciò che all’apparenza potrebbe sembrare un tragico e irreparabile incidente, diventa invece una straordinaria via di fuga, l’occasione per scoprire una nuova dimensione di libertà che gli consente di esprimere se stesso e, letteralmente, di rinascere.
Non è un caso che la fotografia di El Jockey ricordi palesemente quella che caratterizza fortemente la filmografia di Aki Kaurismäki, perché tutte e due le circostanze portano la firma del finlandese Timo Salminen, con i suoi colori nitidi, le luci calde e le atmosfere vintage. Un ambiente perfetto per collocare una storia in cui proliferano i simboli nascosti dietro un’apparente normalità.
Remo si aggira in un mondo che ad una prima occhiata potremmo codificare come quello descritto dai tanti film polizieschi degli anni ’70, tra criminali e corse truccate, ma il racconto e le immagini ci propongono di continuo richiami ad una dimensione diversa per temi. Tutto ruota intorno ad un ciclo necessario di morte e rinascita, il talento è fonte di schiavitù, mentre per converso la reclusione diventa momento di libertà. Gli opposti si bilanciano e i contrasti creano l’equilibrio in un ritmo narrativo inquieto ma sorprendentemente logico e a tratti divertente e poetico.
“Ho partorito me stessa” dice Remo Manfredini nel momento massimo della sua liberazione in cui, uccidendo sé e colui che lo tiene schiavo, rinasce prima come donna e poi come bambina da lui stesso generata. C’è qualcosa del realismo magico della poetica dell’argentino Jorge Luis Borges in questo folle ciclo che mescola realtà e fantasia in un simbolismo fortemente evocativo.
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Vania Amitrano
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