Dostoevskij è l’opera di Fabio e Damiano D’Innocenzo più complessa e matura e arriverà al cinema in due parti.
Presentata in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino: Dostoevskij, la prima serie ideata, scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo, arriva divisa in due atti nelle sale cinematografiche, entrambi distribuiti da Vision Distribution dall’11 al 17 luglio, prima di approdare su Sky composta in sei episodi a fine 2024.
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Un noir, un thriller crudo quello a cui i fratelli D’Innocenzo hanno dato forma e vita, ambientato in un lasso di terra non specificato, dominato da un efferato degrado sociale e umano. Una terra surreale, un limbo sospeso che molti definirebbero come ‘dimenticata da Dio’, o forse in questo caso, è più esatto, ‘persa da Dio’, dove il poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi) un uomo tormentato dalle inquietanti ombre di uno sconosciuto passato, è ossessionato da ‘Dostoevskij’, killer seriale che uccide con una particolare peculiarità. Accanto al corpo delle proprie vittime infatti, l’omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità, che Vitello sente rovinosamente risuonare dentro di se.
Dostoevskij, il morbo del male di vivere
Dostoevskij è un racconto viscerale sul malessere di vivere e sulle conseguenze di essere vivi. Sofferenza bestiale che nel primo atto viene vissuta dal punto di vista del protagonista Enzo Vitello, uomo, padre e poliziotto che ha scelto di perdere tutto incluso se stesso, e che nel secondo atto si sviluppa e amplia inghiottendo tutto ciò che ha intorno. Un male che non fa prigionieri e non risparmia nessuno. Un morbo da cui non ci si può liberare e non si può fuggire, ma da cui si può solo tentare di sopravvivere andandogli incontro indagando, studiando ed esaminando il caos della vita e l’inutilità del suo profondo abisso.
Uno squallido labirinto visivo ed emotivo quello di Dostoevskij regno di baracche isolate, luoghi bui e sudici, muri e intonaci scrostati. Tuguri cosparsi di immondizia e ruggine di cui si sente il puzzo dell’aria carica di muffa, umidità, sangue rappreso e cadaveri in putrefazione. Case vuote, luride mai finite e occupate, in cui si va alla ricerca della fonte di quel dolore, di quella disperazione, solitudine e di quell’annichilamento la cui espiazione, a quanto pare, sta nell’autodistruzione e nella morte.
Un mondo desolante e disturbante, che connette e catapulta lo spettatore nell’animo nero dei personaggi spesso oltrepassando i limiti della sopportabilità emozionale. Il ritratto lucido di una profondissima voragine dalla logica insensata che porta allo smarrimento e alla perdizione di se stessi. Un vuoto racchiuso negli ultimi attimi di vita, negli ultimi respiri e spasmi delle vittime descritti e scritti ordinatamente in stampatello nelle lettere da Dostoevskij, il male di vivere per l’appunto.
Turpitudine che da sempre i D’Innocenzo affrontano, e che ancora una volta sfidano a muso duro guardando negli occhi, senza paura di ‘sporcarsi e puzzare di morte da cima a fondo’, la spietata e fredda oscurità esterna specchio del terrificante aspetto borderline umano, di cui fa parte quell’intima vulnerabilità che da sempre si tende a nascondere e che invece in Dostoevskij viene messa a nudo e traslata nei personaggi.
Un ombra, nolente o dolente, presente in ognuno di noi, e che proprio come l’opera dei registi e sceneggiatori di La Terra dell’Abbastanza, Favolacce e America Latina, non ha ambientazioni, forme, confini, logica, comprensione, senso, ritmo, cronologia, pietà e perdono, ma ha solo demoni, illuminati da una flebile e illusoria speranza nei minuti di finali.
Tanto disorientante e respingente nella sua costruzione e rappresentazione, quanto drammaticamente, magnetica, affascinante, sbalorditiva e reale nella sua brutalità, Dostoevskij è un racconto dalla radicata intensità, come del resto lo è Flippi Timi che coraggiosamente accetta di scendere negli inferi, e con straordinaria prodezza e sensibilità entra nell’anima e nella mente di una figura così cupa, introversa ed enigmatica come quella di Enzo Vitello, lontana anni luce dalla sua brillante personalità. Al suo fianco non si può non elogiare, Carlotta Gamba, nel ruolo di Ambra, figlia di Vitello, annientata dal rapporto con questo padre che in realtà non ha mai avuto, Gabriel Montesi, volto del poliziotto nuovo arrivato Fabio Bonocore, la cui ambizione è quella di dimostrare di essere migliore di Vitello, e Federico Vanni, capo di Vitello, un uomo fragile che non ha la forza di contrastare la grande oscurità che lo circonda, e da cui, di conseguenza, si lascia lentamente logorare.
Elementi, protagonisti, analisi e riflessioni, che fanno quindi di Dostoevskij forse l’opera più complessa e acuta dei fratelli D’Innocenzo, il cui perfetto equilibrio permette loro non solo di esplorare le amate tematiche e drammaturgie, bensì di espanderne le ossessioni e le psicosi, grazie anche a quel denso graffio che in questo caso va a caratterizzare il genere seriale. Una peculiarità che, al pari dei romanzi dell’autore del titolo, immerge lo spettatore in quella soffocante oppressione esistenziale di cui è l’indagine è intrisa. Parabole che si restringono fino a togliere il respiro e che superano il confine della ricerca del senso della violenza, del chi, del come e del perché con una struttura meticolosa, suggestiva e scarnificata.
Dettagli ulteriormente sottolineati dalle sempre nuove prospettive della fotografia di Matteo Cocco, e dall’ambiguo montaggio di Walter Fasano. E poco importa se è proprio quest’ultimo a suscitare qualche perplessità in merito alla sceneggiatura, dal momento che non è la banale e irreprensibile fluidità, visiva e narrativa, che si chiede e ci si aspetta dai D’Innocenzo. Piuttosto è quell’imperfezione disconnessa, distorta e sporca elevata alla massima potenza ed estremizzazione di ambienti, pensieri e personaggi, che continua e continuerà a far storcere il naso, che si vuole da loro. Scelte che spingono al deragliamento riflesso dell’untuosa gabbia di uno stato d’animo e mentale cuore di Dostoevski, pedine di una scacchiera dalla penetrante maturità e incontri contraddittori, in cui a vincere sono Fabio e Damiano D’Innocenzo.
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Emanuela Giuliani
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