Dostoevskij è l’opera di Fabio e Damiano D’Innocenzo più complessa e matura e arriverà al cinema in due parti.
Presentata in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino: Dostoevskij, la prima serie ideata, scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo, arriva divisa in due atti nelle sale cinematografiche, entrambi distribuiti da Vision Distribution dall’11 al 17 luglio, prima di approdare su Sky composta in sei episodi a fine 2024.
Un noir, thriller nudo e crudo quello a cui i fratelli D’Innocenzo hanno dato forma e vita, ambientato in un lasso di terra non specificato, dominato da un efferato degrado sociale e umano. Una terra surreale, un limbo sospeso che molti definirebbero come ‘dimenticata da Dio’, o forse in questo caso, è più esatto, ‘persa da Dio’, dove il poliziotto Enzo Vitello, un uomo tormentato dalle inquietanti ombre di uno sconosciuto passato, è ossessionato da ‘Dostoevskij’, killer seriale che uccide con una particolare peculiarità. Accanto al corpo delle proprie vittime infatti, l’omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità, che Vitello sente rovinosamente risuonare nella sua mente, nel suo cuore e nella sua anima.
Dostoevskij, il morbo del male di vivere
Dostoevskij è un racconto viscerale sul malessere di vivere e sulle conseguenze di essere vivi. Sofferenza bestiale che nel primo atto viene vissuta dal punto di vista del protagonista Enzo Vitello, uomo, padre e poliziotto che ha scelto di perdere tutto incluso se stesso, e che nel secondo atto si sviluppa e amplia, inghiottendo tutto ciò che ha intorno. Un male che non fa prigionieri e non risparmia nessuno. Un morbo da cui non ci si può liberare e non si può fuggire, ma da cui si può solo tentare di sopravvivere andandogli incontro indagando, studiando ed esaminando il caos della vita e l’inutilità del suo profondo abisso.
Uno squallido labirinto visivo ed emotivo quello di Dostoevskij regno di baracche isolate, luoghi bui e sudici, muri e intonaci scrostati. Tuguri cosparsi di immondizia e ruggine di cui si sente il puzzo dell’aria carica di muffa, umidità, sangue rappreso e cadaveri in putrefazione. Case vuote, luride mai finite e occupate, in cui si va alla ricerca della fonte di quel dolore, di quella disperazione, solitudine e di quell’annichilamento la cui espiazione, a quanto pare, sta nell’autodistruzione e nella morte.
Un mondo desolante e disturbante, che connette e catapulta lo spettatore nell’animo nero dei personaggi, spesso oltrepassando i limiti della sopportabilità emozionale. Il ritratto lucido di una profondissima voragine dalla logica insensata che porta allo smarrimento e alla perdizione di se stessi. Un vuoto racchiuso negli ultimi attimi di vita, negli ultimi respiri e spasmi delle vittime descritti e scritti ordinatamente in stampatello nelle lettere da Dostoevskij, il male di vivere per l’appunto.
Turpitudine che da sempre i D’Innocenzo affrontano, e che ancora una volta sfidano a muso duro guardando negli occhi, senza paura di ‘sporcarsi e puzzare di morte da cima a fondo’, la spietata e fredda oscurità esterna specchio del terrificante, intimo aspetto borderline umano. Un lato che proprio come l’opera dei registi e sceneggiatori di La Terra dell’Abbastanza, Favolacce e America Latina, non ha ambientazioni, personaggi, confini, logica, comprensione, senso, ritmo, cronologia, pietà e perdono, ma ha solo demoni, illuminati da una flebile e illusoria speranza solo nei minuti di finali.
Dostoevskij è un’opera tanto disorientante e respingente nella sua costruzione e rappresentazione, quanto drammaticamente, magnetica, affascinante, sbalorditiva e reale nella sua brutalità. Intensa come del resto lo è Flippi Timi, il cui straordinario talento nel riuscire ad entrare nell’anima e nella mente di una figura così cupa e introversa lontana anni luce dalla sua brillante, vivace ed estroversa personalità, è innegabile e non si può che elogiare, Carlotta Gamba, nel ruolo della figlia di quest’ultimo, e ancora Gabriel Montesi e Federico Vanni, rispettivamente nuovo collega e capo di Vitello.
Senza alcun dubbio Dostoevskij è l’opera più matura, complessa e acuta dei fratelli D’Innocenzo, il cui perfetto equilibrio permette loro non solo come detto ad esplorare le amate tematiche e drammaturgie, bensì di espanderne le ossessioni e riflessioni attraverso il denso e oltremodo ipnotico, graffiante e distintivo genere seriale. Una peculiarità che, al pari dei romanzi dell’autore del titolo, immerge lo spettatore in quella soffocante oppressione esistenziale di cui è l’indagine è intrisa. Parabole che si restringono fino a togliere il respiro e che supera il confine della ricerca del senso della violenza, del chi e del perché, con una ben precisa, peculiare, meticolosa, suggestiva e scarnificata ricostruzione.
Dettagli ulteriormente sottolineati dalle sempre nuove prospettive della fotografia di Matteo Cocco, e dall’ambiguo montaggio di Walter Fasano. E poco importa se è proprio quest’ultimo a suscitare qualche perplessità in merito alla sceneggiatura, dal momento che non è la banale e irreprensibile fluidità, visiva e narrativa, che si chiede e ci si aspetta dai D’Innocenzo. Piuttosto è quell’imperfezione disconnessa, distorta e sporca elevata alla massima potenza ed estremizzazione di ambienti, pensieri e figure che continua e continuerà a far storcere il naso ai ‘più’ che si vuole da loro. Scelte che spingono al deragliamento e che sono il riflesso speculare dell’untuosa gabbia di uno stato d’animo e mentale cuore di Dostoevski. Elementi e pedine di una scacchiera dalla penetrante maturità, in cui a vincere sono Fabio e Damiano D’Innocenzo.
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Emanuela Giuliani
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