Difficile cominciare un discorso su “Decision to Leave”, ultima opera di Park Chan-Wook presentata al 75esimo Festival di Cannes (e che al regista è valso la Palma d’Oro per la Miglior Regia), senza iniziarne contemporaneamente uno sugli Oscar e sulla solita tendenza dell’Academy a farsi sfuggire, a volte consapevolmente e per strategie del tutto discutibili, film dall’indubbio valore artistico.
Se per ogni edizione della cerimonia c’è almeno una svista imperdonabile, quella di quest’anno sembra essere questo film a metà fra indagine poliziesca e noir, che non riesce a figurare nemmeno nella cinquina di candidati al Migliore Film Straniero
Il detective Jang Hae-jun (Park Hae-il) soffre d’insonnia, lavora a Busan e riesce a vedere sua moglie Jung-An solo una volta a settimana. Con il suo collega Soo-wan si ritrovano a dover indagare sul mistero che aleggia attorno a una morte apparentemente inspiegabile: il corpo di Ki Do Soo viene ritrovato ai piedi di una montagna, ma non si comprende cosa possa averlo ucciso.
Suicidio? Omicidio? Incidente? Non ci sono molte piste, se quella aperta dal sospetto che cade inevitabilmente sulla moglie dell’uomo: la bella Song Seo-rae non piange, non è triste, non sembra soffrire.
Porta soltanto, con preoccupante disinvoltura, un graffio sulla mano, ferite sulle gambe e sul busto, e un tatuaggio con cui suo marito apponeva il proprio marchio sulle superficie di ogni cosa da lui posseduta. È difficile comprendere cosa passi per la testa di Seo-rae, e se sia colpevole o innocente: nel tentare di venirne a capo Hae-jun dovrà fare i conti con il fascino della vedova, che rischierà di compromettere le indagini.
L’investigazione è un espediente perfetto
Con la trilogia della vendetta, trittico composto da “Mr. Vendetta”, “Old Boy” e “Lady Vendetta” grazie al quale nei primi anni duemila il nome di Park Chan-wook cominciò a farsi notare e ricordare fuori dai confini nazionali, il regista di Seul aveva già trovato uno stile non definitivo ma riconoscibile.
Uno stile che consiste nel fondere l’urgenza narrativa all’eleganza della messa in scena, e che trova nel genere thriller-noir (talvolta intriso d’azione, altre volte dalle svolte drammatiche) la preziosa possibilità di raccontare l’essere umano a partire dal suo confronto con la morte.
L’investigazione è sempre un espediente perfetto per porre i propri personaggi dinanzi a doppi di loro stessi, simili ma privati della vita; e le fasi della ricerca per giungere a un colpevole sono suggellate da ostacoli che nel porsi fra l’uomo e lo scioglimento del suo enigma ne aprono uno, più importante, su se stesso.
Nasce come thriller-poliziesco, “Decision to Leave”, con tutti i crismi del genere a regolare quello che succede nei paesaggi impervi dove tutto può morire e rimanere nascosto per sempre. Sostenuto da un ritmo serrato e da punte d’ironia che ne scandiscono il racconto senza mai appesantirlo, la storia di Park procede assecondando le aspettative legate a certo cinema (i cui canoni sono stati ormai consolidati nel tempo), finché non decide di virare sul noir.
Ed è un noir nel suo senso più puro “Decision to Leave”, raffinata esplorazione dell’animo umano e delle sue zone d’ombra tramite la chiave del genere: lo è nel permettere ai personaggi di oltrepassare i confini dei propri ruoli nel genere, nel consentire a una donna di essere più della vedova che suo marito ne ha fatto e a un detective di essere più che parte coinvolta nel caso.
Quella del film di Park è, dunque, una struttura a mastrioska, basata su un incasellamento che progressivamente viene sfaldato e si trasforma in qualcos’altro, andando a penetrare il cuore e gli abissi più profondi delle emozioni umane e della loro complessità.
Gli esseri umani non sono mai uguali a loro stessi: mediante gli occhi di Hae-jun, Seo-rae riveste parti sempre differenti nell’indagine, nella sua vita e nel film stesso: da vittima a sospettata, da misteriosa vedova a intelligibile femme fatale, e così via finché l’assimilazione completa del melodramma non viene completata e porta a termine la composita narrazione con esiti inaspettati.
Nega una qualsiasi ispirazione a La donna che visse due volte, Park; eppure sappiamo bene che l’influsso dei grandi autori opera per vie non sempre comprensibili e mai del tutto consapevoli, in particolar modo quando le loro opere si sono fatte parte di un immaginario che non è più personale, bensì collettivo e condiviso.
La regia di Park opera per movimenti virtuosi e impossibili, percorrendo strade inesistenti fino a rompere la geometria degli ambienti e a dare forma pratica alla tecnologia dei nostri giorni. Nulla di più distante dalla classicità (a sua volta rivoluzionaria) di Alfred Hitchcock, che però con il suo film maggiormente (all’epoca) incompreso e bistrattato respira ancora fra le pieghe del racconto di un uomo e una donna che si attraggono e respingono nelle maree di un sentimento crudele e appagante al tempo stesso.
Un sentimento mai uguale a sé, che si contrappone alla staticità, all’ordinarietà, alla passione pianificata e per questo pallida emulazione della verità. Un amore che non si consuma mai sul piano fisico e il cui alito vitale risiede nei dettagli, negli sguardi, nel non detto e nel perpetuo sfuggirsi per reincontrarsi da qualche altra parte. E, forse, farsi ancora del male.
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Federica Cremonini
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