Venezia 80 si apre nel segno del biopic sul Comandante Salvatore Todaro, con un grande Favino in un film di mare dall’identità ibrida
La figura di Salvatore Todaro non è di quelle che passano inosservate, almeno per chi conosce la guerra di mare. Comandante di uno dei tanti sommergibili della Regia Marina Italiana mandata allo sbaraglio nei mari della Seconda Guerra Mondiale, nell’ottobre del 1940 dopo aver affondato il cargo belga Kabalo in una furiosa battaglia notturna, ne accolse a bordo 26 naufraghi, di fatto contravvenendo alle disposizioni date in merito dal Comando. Da quell’episodio unico e irripetibile, Edoardo De Angelis ha tratto questo Comandante, che si poggia su un Pierfrancesco Favino a briglia sciolta.
Un war movie marinaro dalle molte facce
Comandante non è un film che si possa approcciare con facilità, neppure per chi è cresciuto a pane e acqua di mare (cinematograficamente parlando). Edoardo De Angelis, regista tra i più atipici di questa generazione dello stivale, si arma di audacia e volontà di operare una rottura con i cliché del genere e crea un film che si muove su linee opposte in modo tambureggiante. Fotografia fumosa, salmastra e fredda quella scelta da Ferran Paredes Rubio, che però ben si adatta alla narrazione marinara qui scelta, soprattutto al tema dell’incertezza che domina questo film guerresco così atipico. Comandante è sovente aulico e persino fiabesco, altrove spartano, realista in un modo che non si vedeva da tantissimo tempo nel nostro cinema, oppure è una finta?
De Angelis pare in diversi momenti prendersi quasi gioco dello spettatore (lo si intende in senso buono ovviamente) sceglie l’indefinitezza come via maestra per attrarre la nostra attenzione, divide il film in più parti, più anime, quasi a seguire l’evoluzione del suo protagonista e dell’equipaggio, ma poi la stessa natura ibrida della guerra in mare. Ci si ammazza a silurate e cannonate, con bombe di profondità e coltelli se serve, ma la solidarietà degli uomini persi sull’acqua non conobbe spesso limiti a dispetto della guerra. Inizio teatrale, visivamente decadente e sensuale, pittorico si potrebbe dire.
Favino che si destreggia con il dialetto veneto (gli scappa un comprensibile bestemmione che aumenta il realismo ad una certa) alla grande, mentre rifiuta le morbide coltri dell’invalidità offerte dalla Marina e dalla bella moglie (Silvia D’Amico), per affidarsi alle profezie in greco di un sarto, alla morfina, allo yoga. Poi parte con il suo vascello, armato della fiducia nella fortuna come ogni capo militare degno di nota ha sempre fatto, conscio che il caso è il grande arbitro della guerra.
Un film che si dibatte tra lirismo e volontà realistica
Comandante segue un doppio binario. Da una parte ci dona una sorta di decostruzione della retorica fascista e patriottica, dall’altra pare quasi onorarne estetica e memoria. Si può scorgere qualche connessione con Uomini Contro e Das Boot, ma poi ecco che tornano in mente K-19 e persino Jules Verne, il magico scrigno di ferro che sfida i flutti. Non è sbagliato vedere un eccesso di maniera nella prima parte, con le voci narranti in dialetto, con il simbolismo della donna che (come in ogni memorialistica bellica) è rifugio, porto di mare, ultimo sprazzo di una vita terrena che sparisce nella nebbia assieme alla riva.
Davvero serviva? Davvero c’è bisogno del machismo simulato e convinto di Favino che inneggia al pro-patria memento mori e poi fa retromarcia? Era un’altra Italia, erano altri uomini, bene o male la Marina era l’arma meno fascista di tutte ma non per questo non conservatrice, non classista o non schierata. Era anche forse l’unica parte decente delle nostre forze armate, ma per quantità non per qualità.
Questo Comandante lo fa capire mentre strizza l’occhio a Master and Commander, capolavoro marinaro di rara bellezza, di cui insegue la dimensione di espressione della leadership che le onde creano, il legame gerarchico atipico tra Salvatore Todaro, mistico marinaio armato di superstizione ed empatia, ed il suo equipaggio di scugnizzi pronti a tutto. Lo segue, come un’ombra profetica disegnata da un Melville, un Hemingway, il vice interpretato da un Massimiliano Rossi viscerale e profetico. Il mare è creatura rispettata e pericolosa, è ventre che accoglie la morte in modo diverso, ultimo rifugio di uomini che rinnegano l’era delle macchine pur paradossalmente standovi dentro. Questo Comandante lo fa arrivare molto bene. Tuttavia, ha i suoi difetti.
Navigando tra stereotipo cinematografico e volontà di innovazione
Gli italiani di De Angelis suonano il mandolino, cantano le solite canzoni, sono tutti o quasi simili a come dall’altra parte dell’Oceano ci immaginano: sempre pronti alla battuta, armati di baffetti e rosari, bellicosi ma con valore malinconico, umani e amanti della vita. O forse siamo stati veramente così, il che poi spiega perché ad una guerra fascista d’aggressione non potevamo che rispondere che con un sonoro fallimento.
Comandante ha le parti migliori in mare, nell’istintivo annusarsi tra Todaro ed i suoi con quei belgi che non sanno che pensare di questi uomini: prima mi affondi e poi mi salvi due volte? Johannes Wirix assolve bene al suo compito di ponte tra le due nazioni, quasi da occhio dello spettatore da un certo punto in poi.
Bella la rievocazione storica, i dialetti che imperano, la diversità culturale che sempre in America non ne vogliono sapere di comprendere come sine qua non della nostra identità multiforme. Todaro? Una sorta di gentleman esotico, dannunziano nei modi ma umanista nella forma, a cui Favino dona carisma, poesia con quelle lettere alla moglie in chi risplende la ferra determinazione di trovare un senso al cataclisma. De Angelis ha la saggezza di parlarci di una guerra straniante, violenta ma fatta dell’altruismo proprio dei marinai, degli uomini legati dal galleggiare sul destino di un mare solcato da giganti di ferro.
Comandante non è forse il film che poteva essere ma è un film che non può lasciare indifferenti, una piccola scheggia impazzita che se non ha la dignità tragica di un El-Alamein di Monteleone (pure lì c’era Favino che coincidenza eh?) o la dimensione metaforica de La Grande Guerra di Monicelli, ma è un po’ come se navigasse a vista cercando di raggiungere entrambi. E come sempre, è il viaggio in sé e non la meta la parte migliore, questo ogni marinaio lo sa.
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Giulio Zoppello
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