Cocainorso, la recensione del film di Elizabeth Banks nei cinema italiani dal 20 aprile distribuito da Universal Pictures.
Alcune storie sono così surreali da sembrare fantasie partorite dalla mente umana. Spesso, invece, sono la pura e semplice realtà, che giunge a ricordarci quanto sia spesso capace di superare in creatività i più assurdi racconti di finzione. Un esempio molto efficace, in tal senso, è la storia di Cocainorso (Cocaine Bear), film diretto e prodotto da Elizabeth Banks e incentrato su un incidente realmente avvenuto nella Georgia del 1985.
Cocainorso: la trama tratta da una storia vera
Nel 1985, Andrew C. Thornton fa accidentalmente cadere un carico di droga da un aereo in volo. Dopo un primo tentativo di recupero, fallito, Thornton perde la vita schiantandosi a terra. Il suo corpo viene in seguito identificato nella città di Knoxville, Texas, dal detective Bob, la cui conclusione è che il resto della cocaina sia finito da qualche altra parte e che il carico provenga dal signore della droga locale, Syd White (Ray Liotta). C’è qualcuno che però ha già trovato il carico disperso. Qualcuno che vive nella foresta nazionale di Chattahoochee–Oconee, ma che non è un uomo: il nuovo proprietario è infatti un orso nero che, dopo aver accidentalmente ingerito 34 kg della cocaina, si trasforma in un killer spietato, imprevedibile ed estremamente aggressivo che comincia a mietere vittime.
Cocainorso, un film di tutti i generi e di nessun genere
L’orso (o, meglio, l’orsa) che si è cibato della polvere bianca caduta dal cielo è stata, nella vita reale, protagonista di una storia tutt’altro che comica. Al contrario, ha del tragico constatare, anche mediante fatti paradossali come quelli da cui si fonda la premessa di Cocainorso, lo scotto che gli animali pagano per le azioni degli esseri umani. Tuttavia, la coppia formata da Elizabeth Banks alla regia e da Jimmy Warden alla sceneggiatura opta per un approccio ben poco serioso al materiale di partenza, avvalendosi soltanto dello scheletro della vicenda e montandoci su una narrazione dai deliranti risvolti.
L’orsa, che nella realtà è andata incontro a una morte precoce, si trasforma nel film di Banks in un assassino a sangue freddo, ma dal sesso imprecisato, che viene presentato sin dal prologo (per qualche astrusa ragione doppio) e che si scontrerà con i personaggi in una lotta violenta ritmata da un copioso e generosissimo sgorgare di sangue e viscere. Una scelta bizzarra, se non altro perché sarebbe davvero approssimativo definire Cocainorso un horror: da una parte è vero che il film prende in prestito al genere un linguaggio proprio suo, tradizionalmente suo, nella messa in scena delle uccisioni, e nell’adoperare alcuni meccanismi consolidati hide-and-seek che precedono le morti dei personaggi (anche in modo vagamente prevedibile, ma accontentare gli istinti primordiali del pubblico è la missione principale).
Dall’altra, però, l’opera gioca costantemente con il registro della commedia, innestando momenti esilaranti su una struttura narrativa che guarda, nel primo e nel terzo atto (meno in quello centrale, più “abbandonato” al survival horror), al gangster movie e all’azione. E dunque ecco servito Cocainorso, questo strano ibrido fra generi che vorrebbe unire con un senso di rigore logico i dispositivi di universi cinematografici apparentemente inconciliabili solo per confermarne, in pratica, l’inconciliabilità: perché no, quella di Banks non è né una commedia, né un horror, e poi neppure un film action o un film di sopravvivenza, e men che meno un gangster movie. È, molto differentemente, un’opera incerta, acerba e mal sviluppata che vorrebbe trarre linfa vitale da ognuna di queste suggestioni, ma che finisce soltanto per indebolire ogni stimolo ricevuto, finendo così per appiattire il potenziale proveniente da ogni genere.
Una triade di sequenze che dovremmo definire “scene madri”, per correttezza, sembrano ridestare momentaneamente l’attenzione dello spettatore (la prima quella della caccia sull’albero, la seconda quella della frenetica corsa in ambulanza e la terza quella del gazebo), ma si tratta di scene disseminate nel corso di un film poco avvincente e, insieme, spaventato dalla noia, non serio ma neppure votato alla comicità dichiarata.
Il tutto condito da un rosario di figure che non hanno nulla del personaggio e che hanno tutto, invece, della macchietta e dello stereotipo. Non si capisce fin quanto sia responsabilità di Warden, che con The Babysitter aveva invece dimostrato di saper maneggiare bene i tropi narrativi dell’horror (ben altra cosa rispetto al cliché), e quanto del filtro applicato dallo sguardo di Banks sul testo di partenza, privo di identità: fatto sta che i legami che dovrebbero legare questi protagonisti sono a dir poco flebili, incapaci di trovare la coerenza che servirebbe in un tessuto narrativo così ampio (su carta).
Cocainorso è, perciò, uno di quei film a cui si finisce per dare una possibilità sperando che sia fonte di inesauribile divertimento senza profondità. Un po’ come si fa con i film di casa Asylum, a cui pure somiglia (ma volendolo davvero? Con quel finale?). Ciò che si può rimproverare all’opera non è l’intenzione quanto, piuttosto, la riuscita della sua stessa missione: non è assicurato che il film di Banks riesca a far davvero ridere di cuore, perché non è né carne e né pesce. Forse è solo orso, ma a tratti.
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Federica Cremonini
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