“Close” – Incontro Stampa: Lukas Dhont e la profondità dell’amicizia maschile
Dopo l’acclamato e folgorante esordio nel 2018 con “Girl”, premiato al 71esimo Festival di Cannes con la Caméra d’or per la Miglior Opera Prima, il Fripresci, il Queer Palm, e il Premio per la Miglior Interpretazione Maschile nella sezione Un Certain Regarde assegnato a Victor Polster, il regista belga Lukas Dhont torna sul grande schermo con una profonda storia di amicizia e ricerca dell’identità.
“Dopo il successo di ‘Girl’ a Cannes, ho fatto il tour di promozione del film per circa 18 mesi. L’abbiamo proiettato ovunque – a Toronto, Telluride, Tokyo. Il film è stato anche selezionato come candidato all’Oscar come migliore film straniero del Belgio, quindi ho trascorso molto tempo negli Stati Uniti. Come prima esperienza è stata estremamente emozionante, ma anche travolgente. Ho attraversato alti e bassi durante quel periodo e quando è arrivato il momento di passare ad altro, ho dovuto dimenticarlo lasciandolo nel passato, come una parte di me” – spiega Dhont.
“Nel momento in cui sono finalmente tornato a casa, mi sono seduto davanti alla pagina bianca ed è stato uno shock. Dovevo pensare a un argomento di cui parlare con altrettanta passione e in un certo senso riprendere ciò che avevo iniziato con ‘Girl’. Ho scoperto il cinema attraverso mia madre, che adorava il film Titanic, e poi attraverso i miei studi cinematografici. Non mi ci è voluto molto per capire che volevo fare film intimi e personali. Volevo esplorare quelle cose che mi destabilizzavano durante la mia infanzia e la prima adolescenza. In ‘Girl’, desideravo discutere dell’identità e della difficoltà di essere sé stessi in una società che si basa su norme sociali, etichette, caselle. ‘Girl’ era anche un film fisico, incentrato su una lotta esterna e interna, e volevo continuare a esplorare la questione dell’identità e il conflitto derivante dal modo in cui vieni percepito dagli altri, dal gruppo. Principalmente, volevo parlare di un argomento profondamente personale.”
“Ho esplorato diverse idee, ma ero confuso. Poi un giorno sono andato a visitare la mia vecchia scuola elementare nel paesino dove sono cresciuto. Ho ripensato a quando andavo a scuola a quei tempi, quando era davvero difficile essere il mio vero io, senza filtri. I ragazzi si comportavano in un modo, le ragazze in un altro, e mi sono sempre sentito come se non appartenessi a nessun gruppo. Ero molto inquieto per via delle mie amicizie, specialmente con i ragazzi, perché ero effeminato e mi prendevano molto in giro. Avere un rapporto stretto con un altro ragazzo sembrava confermare le supposizioni che gli altri avevano sulla mia identità sessuale. Una delle mie ex insegnanti, che ora è la preside, è scoppiata in lacrime quando mi ha rivisto” – svela il regista – “La reunion scolastica è stata particolarmente emozionante, i ricordi di cui abbiamo parlato non erano tutti allegri. Ancora oggi sto facendo i conti con gli anni dolorosi della scuola primaria e secondaria, ma non voglio sembrare troppo drammatico… Quindi ho cercato di descrivere questi sentimenti e di esprimere qualcosa su quel mondo dal mio punto di vista. Ho scritto alcune parole su quella pagina bianca: amicizia, intimità, paura, mascolinità… e da lì è emerso Close. La sceneggiatura ha poi cominciato a prendere forma in seguito alle conversazioni con Angelo Tijssens (il co-sceneggiatore di Girl)”.
Presentato in concorso al 75esimo Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria, e nella sezione della Festa del Cinema di Roma Alice nelle città, “Close”, il nuovo film di Lukas Dhont arriverà nelle sale italiane il 4 gennaio grazie a Lucky Red.
Un toccante, sentimentale e sensibile coming of age incentrato sul delicato passaggio che va dall’infanzia all’adolescenza, raccontato attraverso il legame fraterno di due ragazzi di 13 anni, Léo e Rémy, rispettivamente interpretati da Eden Dambrine e Gustav De Waele, che sarà stravolto da un tragico e inaspettato evento.
“Inizialmente non avevo in mente una tragedia, questa cosa è venuta dopo. Tuttavia, era mia intenzione realizzare un film che rendesse omaggio agli amici con cui avevo perso i contatti, per colpa mia perché mi sono tenuto a distanza; sentivo di averli traditi. È stato un periodo di confusione e ho pensato che fosse la cosa migliore da fare. Inoltre, volevo parlare della perdita di una persona cara e dell’importanza del tempo che trascorriamo con coloro che amiamo” – afferma Dhont – “La storia si basa essenzialmente sulla fine di un rapporto intimo e sul conseguente senso di responsabilità e di colpa. Per certi versi è l’inizio del viaggio verso l’adolescenza. Volevo davvero parlare di quel pesante fardello che portiamo quando ci sentiamo responsabili di qualcosa ma non siamo in grado di parlarne. Léo, il protagonista, sta affrontando questo sentimento provocato dalla perdita di un’amicizia molto stretta che definisce la sua identità; Volevo mostrare sullo schermo cosa gli spezza il cuore”.
“Chiamalo destino o fortuna, ma subito dopo aver scritto la prima scena del film ho conosciuto Eden (che interpreta Léo) sul treno che andava da Anversa a Gand. Stava chiacchierando con i suoi amici, e aveva qualcosa di incredibile, una grande espressività. Gli ho parlato e l’ho invitato al provino per la parte. Mi ha riconosciuto perché ha frequentato la stessa scuola di danza di Victor Polster (che interpreta il ruolo principale in ‘Girl’)” – prosegue Dhont parlando della scelta dei protagonisti – “Ho avuto l’opportunità di incontrare moltissimi giovani adolescenti incredibilmente intelligenti per poter fare il casting di questo film. Ne abbiamo selezionati 40 e poi questi hanno fatto un’audizione a coppie. C’erano delle combinazioni sorprendenti, ma quando abbiamo visto Eden e Gustave (che interpreta Rémi) recitare l’uno di fronte all’altro, abbiamo capito che avevano un legame speciale. Sono riusciti a immergersi nell’emozione delle scene e subito dopo ne sono usciti rapidamente. Erano infantili eppure si avvicinavano ai loro ruoli con maturità. È stato un abbinamento fantastico.”
“Hanno letto la sceneggiatura ancor prima che noi completassimo il casting e credo sia stato estremamente importante per far sì che noi scegliessimo loro e loro noi. Abbiamo iniziato parlando molto dei temi di questo film e dell’amicizia che c’è. Si tratta due ragazzi che stanno crescendo per diventare due giovani uomini, e capiscono anche la pressione che viene posta sull’aspetto e concetto di mascolinità, quindi parlarne e discuterne per me importante.”
“Abbiamo trascorso moltissimo tempo insieme, ma non abbiamo provato neanche una singola scena, io non lo faccio mai. Abbiamo trascorso il tempo facendo i pancakes, gli spaghetti, facendo delle passeggiate, avevano anche la serata messicana, e tutto questo in maniera molto informale. Facevo loro delle domande sul perché i personaggi avrebbero fatto delle determinate azioni, trasformandoli di conseguenza in una sorta di detective che vogliono scoprire, capire, perché accadono quelle cose nella sceneggiatura. Dal momento che si tratta di ragazzini, essere parte attiva in qualcosa che li intriga molto e li spinge a creare, un po’ per volta, fa sì che acquistino fiducia e capiscano di cosa parla il film. Non gli ho mai fatto provare quattro pagine di testo, quello che per era importante, era che capissero veramente quale fosse il loro ruolo, e che ci entrassero per sentirne e percepirne la libertà di esprimersi.”
“In un certo senso mi sento sia Léo che Rémi. C’è un pezzo di me in entrambi i personaggi. Innanzitutto abbiamo determinato l’età degli attori, un momento ben preciso tra l’infanzia e l’adolescenza: l’inizio della scuola secondaria, l’inizio delle domande sulla sessualità, i cambiamenti fisici, il proprio rapporto con il mondo e come queste cose si evolvono. Il libro ‘Deep Secrets’ della psicologa Niobe Way, in cui analizza 100 ragazzi dai 13 ai 18 anni, è stato per me una delle principali fonti di ispirazione. All’età di 13 anni, i ragazzi parlano dei loro amici come se fossero le persone che amano di più al mondo, alle quali possono aprire il cuore. L’autrice racconta di come ogni anno incontrava ciascun ragazzo e osservava come, con il passare degli anni, i ragazzi faticassero sempre più a far emergere l’idea di intimità con i loro amici maschi. Questo libro mi ha aiutato a capire che non ero l’unico ragazzo gay cresciuto lottando con l’aspetto intimo dell’amicizia. Per quanto riguarda il personaggio principale, Léo, volevo che avesse paura che gli altri potessero percepire la loro amicizia come qualcosa di sessuale. Il suo amico Rémi ha a che fare con gli stessi giudizi, ma a lui non importa e non fa nulla per cambiare il suo comportamento. Léo è estremamente importante per lui; lo ama profondamente e non comprende perché cambi atteggiamento. C’è qualcosa di me in entrambi i personaggi, anche se il modo in cui tendo a vedere le cose è più prominente in Léo. Rémi, invece, rappresenta quelle persone che hanno cercato di rimanere fedeli a sé stesse”.
“Credo che le cose più intelligenti siano venute e vengano da questi tredicenni, e devo dire che il punto di partenza del film è stato proprio quello di ascoltare dei ragazzi tredicenni parlare dei loro amici maschi in maniera amorevole, dolce, tenera, e che ci ha ricordato di come eravamo noi. Ovviamente io credo fermamente nei giovani e in quello che loro hanno da dire. Nella messa in scena c’è un quadro di riferimento, ma ciò che io non voglio è che le persone che si trovano davanti la macchina da presa lo percepiscano e ne abbiano la consapevolezza. Non voglio siano coscienti di ciò che succede invece dall’altra parte. Lavoro oramai da trent’anni con il direttore della fotografia, e noi praticamente dissezioniamo e analizziamo dettagliatamente ogni momento di ogni scena, perché è importante capire quali sono i colori, i temi, le intenzioni e le atmosfere. Tutto è incredibilmente studiato, meticolosamente declinato se vogliamo, ma quello che io assolutamente voglio è una performance da parte degli attori dove non ci sia la sensazione che sia per l’appunto tutto studiato.”
“Io credo che il non detto, tutto ciò che non siamo in grado di verbalizzare sia veramente un tema in questo film. Molto spesso i giovani vivono e sperimentano qualcosa per la prima volta, per esempio il senso di colpa, e questo sentimento alcune volte trova posto all’interno del nostro corpo e cresce, cresce, cresce senza che noi riusciamo a esprimerlo. Questa idea di sentimenti che per l’appunto noi non siamo in grado di esprimere è qualcosa che è stato molto presente nella mia vita da ragazzo, e penso sia importante rappresentarlo sullo schermo, perché potrebbe invitare gli spettatori a parlarne” – dice il regista in merito ai sentimenti presenti e non detti nel film.
“Noi trascorriamo la vita andando a scuola, imparando il latino, la matematica, il francese, ma non troviamo ed impariamo il giusto linguaggio interiore per poter esprimere ciò che abbiamo dentro. Questo è una perdita, una mancanza per la nostra società e anche degli adulti. Io ho dei genitori che mi hanno supportato ma che non avevano termini in grado di descrivere ciò che provavano, e questo perché non era stata data loro la possibilità di poterlo fare. Un qualcosa che si trasmette di generazione in generazione.”
“Per quanto riguarda la mascolinità, se la confiniamo e la lasciamo solo al pianto, si limita estremamente il modo di guardare il reale problema effettivo. Attualmente ciò che viene considerato dai giovani ragazzi è che si debba prendere le distanze dalle emozioni, poiché si deve essere più indipendenti, competitivi, tratti questi a cui si attribuisce maggiore valore e che contraddistingue la mascolinità. Un legame, un rapporto di tipo emotivo invece, è qualcosa a cui non si dà la stessa importanza e che in un certo senso è soffocato da questi altri aspetti. Io invece penso che sia importante capire che se vogliamo trovare intimità non dobbiamo farlo come accade ora, ovvero trovandolo soltanto nel sesso e quindi allontanandoci dall’amicizia, ed è questo che ho cercato di mettere sullo schermo.”
“Nel film ci sono molte cose si vedono e molte che non si vedono, e per quest’ultime credo sia importante la libertà di poter riempire gli spazi vuoti e immaginare. Il desiderio fin dall’inizio è stato quello di fare un film su due ragazzini e due donne, che sono le loro madri, e di rappresentarle come personaggi che oltre a essere madri fossero anche due persone che cercano un modo per gestire e affrontare i propri sentimenti” – spiega Dhont – “In particolare Sofi, la madre di Rémy, che indossa questa specie di armatura e non mostra al mondo esterno quello che prova, è l’opposto di come sarebbe stata rappresentata in molte altre situazioni e film. Io le ho trattate e descritte come due personaggi che devono portare il peso del dover andare avanti dopo aver perso una persona a loro carissima, incanalando non solo la tristezza ma anche il senso di colpa. C’è una cosa che riguarda gli esseri umani, ossia questo profondo desiderio di capire le cose, la realizzazione e la presa di coscienza che non tutto può essere afferrato e preso a pieno, perché non sempre è possibile riuscire a comprendere tutto.”
In merito alla possibile continuità tra “Girl” e “Close” dice.
“Penso ci sia una continuità tra i miei film. L’ho’ capito durante i miei studi di cinema. Mentre tutti gli altri studenti facevano tirocini nelle produzioni cinematografiche, io facevo stage con dei coreografi. Se devo essere sincero, non volevo diventare un regista, la mia ambizione era quella di diventare un ballerino. Ma ho rinunciato a quel sogno quando avevo 13 anni perché mi vergognavo. Quando ballavo mi sentivo giudicato e non avevo la forza di fregarmene di quello che pensavano gli altri. Però, quando ballavo avevo modo di esprimermi, di essere veramente me stesso. Quell’esperienza mi ha lasciato quasi una ferita fisica, ma nonostante tutto sono sempre rimasto vicino a coreografi e ballerini” – dice Dhont – “La scrittura mi ha dato un altro modo per incanalare questo desiderio. Mi sono reso conto che trovo più difficile esprimermi attraverso le parole che attraverso il movimento e la danza. Questo è solo il mio secondo film, quindi mi sto interrogando di più e credo che i miei film incorporino il movimento come mezzo di comunicazione. Quando scrivo, le parole spesso si traducono in intenzioni corporee. In Close, volevo che i ragazzi fossero il più vicino possibile nel letto. Queste sono immagini che raramente riusciamo a vedere. Questa vicinanza tra due ragazzi ci è quasi estranea. C’è anche una scena di combattimento, una lotta corpo a corpo che è iconica nel linguaggio omosessuale. Il senso di colpa centrale nel film è anche qualcosa di estremamente fisico, come un fardello interno. Mi attraeva l’hockey su ghiaccio per ciò che rappresenta in termini di mascolinità e brutalità. Nella seconda metà del film, vediamo che l’hockey dà a Léo un motivo per indossare un elmetto, una gabbia metallica che gli copre il viso. Questo costume era interessante perché racchiude, maschera, appesantisce il movimento di una persona. Il movimento è sempre presente quando inizio a scrivere. Nei miei film amo comunicare attraverso i movimenti visivi e anche attraverso il suono”.
“La mia decisione di chiamare il primo film Girl è stata una dichiarazione che sentivo di dover fare. Quanto a ‘Close’, era una parola che ricorreva spesso nel libro Deep Secrets: ‘close friendship1’. È una parola inevitabile quando si descrive l’intima relazione tra questi due ragazzi. È questa intimità così iper-scrutata il catalizzatore dei tragici eventi del film. Quando perdiamo qualcuno, cerchiamo l’intimità con la persona che se n’è andata. Veniamo gettati in una sorta di lotta filosofica. La parola evoca altrettanto facilmente l’idea di essere confinati, di indossare una maschera, l’incapacità di essere noi stessi. La prima proposta per il titolo del film – We Two Boys Together Clinging – è il titolo di un dipinto di David Hockney ispirato a una poesia di Walt Whitman, e rappresenta la fratellanza tra due uomini. ‘Clinging’ (‘Aggrapparsi’) è una parola particolarmente espressiva, per via del desiderio di aggrapparsi saldamente a qualcuno.”
Conclude parlando dell’ambientazione.
“Vengo da un paesino in mezzo alla campagna, a venti minuti da Gand. Questo è il mondo in cui sono cresciuto. La fattoria in cui si pratica la floricultura è basata su quella che c’era nel mio paese. Per me era importante che i campi di fiori trasmettessero una fragilità che contrasta con il mondo dell’hockey su ghiaccio. La famiglia di Léo lavora in questo ambiente colorato che proietta una particolare nozione di infanzia, ed è un paesaggio che cambia con le stagioni. Quando arriva l’autunno, i fiori vengono recisi, il che è un atto piuttosto violento, e i colori scompaiono. Il cambio di stagione crea anche una netta rottura tra i colori dell’infanzia e i toni terrosi del marrone e del nero. Volevo enfatizzare questi contrasti per trasmettere il processo di lutto di un bambino. Dopo l’inverno, i fiori vengono ripiantati e i colori ritornano, annunciando la speranza e la promessa di una vita che continua. Abbiamo scritto la scena finale molto presto perché fin dall’inizio volevamo usare il colore come espediente estetico.”
“Per quanto riguarda la creazione delle famiglie, tutto è nato da un’unica immagine che avevo in mente sin dall’inizio: una madre e un bambino in macchina, il bambino incapace di esprimere ciò che prova. La scena era ancora piuttosto confusa nella mia mente, ma sapevo che doveva esserci un certo grado di tensione. Ricordo che quando ero giovane guardavo il film horror L’Innocenza del Diavolo, con Macaulay Culkin nei panni di un ragazzo con tendenze psicopatiche. Questo film mi ha ispirato e mi ha dato lo spunto per il personaggio di Sophie, la madre di Rémi, e anche per la madre di Léo, partendo dal presupposto che una delle due è al corrente della loro amicizia, visto che è a casa sua che i due ragazzi si frequentano, mentre c’è più distanza con l’altro ragazzo. Il personaggio del fratello maggiore è davvero significativo per me, in particolare nella seconda parte del film”.
Leggi anche: “Close”: il Poster e il Trailer dell’acclamato film di Lukas Dhont
Emanuela Giuliani