scena film million dollar baby

Clint Eastwood e lo sport come metafora della vita

Da Million Dollar Baby a Invictus Clint Eastwood che oggi compie 94 anni ha fatto dello sport una metafora della vita.

I suoi 94 anni il fu Straniero Senza Nome li sta passando sul set del suo prossimo film. La verità è che di uomini come Clint Eastwood oggi non se ne fanno più, purtroppo. La sua vita, la sua opera, sono quelle di un attore, un cineasta, un autore anzi, che rimane unico per impatto, per capacità di parlarci della vita, quella vera, quella che spesso Hollywood mette in secondo piano. Lui, quello che Sergio Leone definiva ironicamente come un attore con solo due espressioni: con o senza il sigaro, è di fatto l’ultimo grande cineasta americano della narrativa umana. Quercia inossidabile e infaticabile, ha saputo fondere elementi della New Hollywood con ciò che il nostro cinema europeo insegnava su personaggi e narrativa. Lui è Leone ed Altman, Friedkin e Houston, Ford, Nichols e De Sica.

Il fu Dirty Harry ha dato anche un’incredibile contributo alla narrazione sportiva, lo ha fatto con film ed interpretazioni meravigliosi, capaci di essere un simbolo di rinnovamento ed anche di emancipazione. Se pensiamo a quanto ancora oggi, molto erroneamente, è indicato come un simbolo del conservatorismo da molti analisti della domenica del nostro paese, la cosa può apparire un paradosso. Ma la verità, è che Eastwood è soprattutto un libertario. Di destra certo, ma per il quale la libertà individuale, i diritti della persona, in particolare i diritti civili sono sempre stati importantissimi.

Ed ecco com’è nato Million Dollar Baby, che è e rimane forse il suo film più bello, ma di certo anche uno dei film migliori di sempre sulla boxe, pareggiato solamente da due capolavori come Raging Bull di Martin Scorsese e il primo capitolo di Rocky Balboa di Sylvester Stallone. Ha qualcosa di entrambi se ci pensiamo bene, ma allo stesso tempo impera la negazione dell’american dream classico. C’è una storia, una storia qualsiasi, quella di una ragazza che sogna di riscattare la propria esistenza sul ring e per poco non ci riesce veramente.

Film assolutamente scevro di retorica, realistico fino al midollo su quello che è l’ambiente della boxe, la sua cultura machista e maschilista, la strada fatta di dolore, nasi spaccati, ossa frantumate e sangue, segue Hilary Swank verso la liberazione personale, compresa quella dal dolore, dalla vita quando non è più degna di essere chiamata tale. La cosa più straordinaria del cinema di Eastwood per me, è come egli non dispensi certezze, ma sani interrogativi, grandissimi dubbi. Allo stesso tempo, ha sempre abbracciato l’epica quando necessario, quando essa era strumento per l’elevazione dell’uomo oltre ai propri limiti e soprattutto le paure.

Questo è il caso naturalmente di Invictus, del suo film dedicato alla straordinaria vittoria degli Springboks in quel Sudafrica che da poco aveva rinunciato all’apartheid, eletto Nelson Mandela (Morgan Freeman) come leader politico. Matt Damon fu il mitico François Pienaar, il leader di quella squadra che da odiata, odiatissima dagli africani e dai non bianchi, cominciò invece ad esercitare un ruolo di rinnovamento. In breve fu capace di diventare simbolo di un nuovo percorso e di un nuovo credo, basato sull’uguaglianza, sul guardare a cosa abbiamo in comune e non cosa ci divide. Rimane anche un grandissimo film sulla riscoperta della resilienza e assieme della capacità di cambiare che ci rendono migliori, come singoli e come collettività.

Mentre rinnovava il western, mentre diventava il maschio Alfa per definizione degli anni ’70 e ’80, diventando ispettore, marine, investigatore, amante clandestino o pistolero, mentre ci parlava della battaglia di Iwo Jima o della disperazione della vecchiaia, Eastwood partecipava anche ad uno dei migliori film sul baseball di sempre: Trouble With The Curve di Robert Lorenz. Al fianco di Amy Adams e Justin Timberlake ci mostrava i retroscena del baseball, dello sport americano per eccellenza, del suo rinnovamento basato sulle nuove generazioni dei latinos, della sua anima in bilico tra narrazione popolare e capitalismo spietato.

Altra grandissima interpretazione, un personaggio come quelli che a lui piacciono e quelli per cui lo abbiamo imparato ad adorare in decenni di una carriera unica e straordinaria: un uomo imperfetto, ma coerente, cocciuto, determinato, ma anche capace di riconoscere i propri errori ma soprattutto leale. Richard Jewell è stato un altro film connesso allo sport, agli attentati che scossero Atlanta 1996, alla persecuzione ingiusta di un ragazzone americano come tanti da parte di FBI e Mass Media.

Cry Macho se potete recuperatelo, è una grande autocritica e assieme una bella disamina su cosa sia invecchiare e guardarsi dietro, sul ruolo dell’uomo nel mondo di oggi. Ora è sul set di Juror No. 2, a dispetto di un’America irriconoscibile per inciviltà, intolleranza, mancanza di rispetto per le idee degli altri. Oggi che compie 94 anni, anche chi ama lo sport ha un debito verso Clint Eastwood, verso il biondo a cui il Tuco di Eli Wallach augurava ogni possibile male dopo li mitico triello, ad uno dei monumenti di quel cinema che ci ha scaldato l’anima per una vita intera.

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Giulio Zoppello


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