“Bones and All” – Recensione: Amami e Mangiami, la fame di essere accettati
Luca Guadagnino ha finalmente presentato alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il suo nuovo film: “Bones and All”, scritto da David Kajganich, il quale aveva già collaborato con il regista in “Suspiria” e “A Bigger Splash”.
Adattamento del romanzo di Camille DeAngelis “Bones & All” (“Fino all’osso”), edito in Italia da Panini Books, il film, con protagonisti Timothée Chalamet e Taylor Russell, senza alcun dubbio era tra i titoli più attesi al prestigioso evento lagunare, e come sperato non ha affatto tradito le aspettative, stupendo e conquistando la critica italiana e internazionale.
Al centro della scena il primo amore tra Maren, una ragazza che sta imparando a sopravvivere ai margini della società, e Lee, un solitario dall’animo combattivo. Il loro è un viaggio on the road nell’America degli anni ’80, alla ricerca della propria identità, bellezza, di qualcuno come loro e di un posto in un mondo pieno di pericoli che non riesce a tollerare la loro vera, e innegabilmente brutale, natura.
“Ho ragionato a lungo da quando ero ragazzino sul paesaggio e sull’immaginario del cinema americano da cui sono stato profondamente influenzato e formato. E credo di aver sempre rinviato il momento, forse perché la vastità degli Stati Uniti d’America meritavano una prospettiva un po’ più matura” – dichiara Guadagnino durante la press conference in merito alla scelta di girare interamente in America – “L’occasione si è manifestata in maniera imprevista e familiare quando David (Kajganich) mi ha presentato questo straordinario copione, che stava scrivendo indipendente da me. Si è trattata davvero una grande occasione visto che siamo amici molto intimi, abbiamo fatto molte cose e molte altre ne faremo. Quando ho letto la sceneggiatura per me è stato inevitabile vedere nella storia questi emarginati, queste identità in cerca di possibilità nell’impossibile, qualcosa che mi attraeva profondamente. E quindi in maniera molto naturale questo si è compiuto.”
“Il film è un road movie, ci siamo accampati a Cincinnati, ma ci siamo mossi molto, era il mio compito assicurarmi che non avessimo abbandonato l’idea di ritrarre una realtà che è quella del film. Il production designer ha creato un mondo senza crearlo, e il modo in cui ha trovato questa America in America è straordinario” – prosegue Guadagnino – “Il piacere di fare le cose, la messa in scena è un raggio di luce per me, è il privilegio di lavorare con amici che sono anche artisti straordinari. In generale io non credo di essere una persona oscura, sono del leone sono nato agosto e quindi sono una persona abbastanza solare” – prosegue parlando della colonna sonora – “La colonna ha vari livelli, questa in particolare è la mia prima collaborazione con questi compositori, queste leggende della musica. Quando mi sono avvicinato a loro la discussione era sul trovare il sound di un viaggio sulla strada, con la chitarra che racchiudesse il concetto che un individuo po’ farcela. Ho chiesto una musica romantica e di distanza. Ho trovato una scatola di cassette di quando ero teenager e lo inserite nel film.”
“Personalmente ancora non so chi sono, e molto probabilmente se lo sapessi sarei forse anche annoiato da me stesso” – continua Guadagnino – “La mia ambizione cinematografica è quella di avere da un lato il controllo del lavoro che faccio e del meccanismo della messa in opera del mio lavoro, e dall’altro e contemporaneamente abbandonarmi al piacere assoluto di lavorare con amici persone che fanno parte della mia famiglia ormai da tanti anni, e che contribuiscono in maniera profonda a creare il risultato di un lavoro collettivo. Devo dire che mi sento soddisfatto, perché ho il privilegio di avere di questo tipo di pratica del mio mestiere” – e parlando di Michael Stuhlbarg dice – “E’ stato straordinario invitare Michael a fare il padre pervertito, dopo essere stato il padre amorevole in ‘Call Me By Your Name’. La recitazione è un gioco e giocare, è divertirsi e noi ci siamo divertiti molto. David Gordon Green è un grande amico, e c’è anche una scena nel film in cui i due personaggi suonano la chitarra con una canzone scritta da David, ed è una sequenza fantastica.”
Un percorso quello raccontato in “Bones and Hall”, lungo il quale i due ragazzi si scopriranno vulnerabili e impareranno a conoscere se stessi l’uno grazie all’altra, tentando di comprendere e accettare l’istinto primordiale e animalesco che è in loro, ricercandone le origini in una società in cui da sempre, paradossalmente, il più forte si nutre del più debole. Dove ognuno, prima o poi, è costretto ad affrontare i propri demoni interiori, imparando a conviverci senza rinnegarli o nasconderli dietro la maschera di una finta normalità.
Un ritratto crudo e tenebroso dai toni horror. Una storia d’amore dalla dolcezza tanto sublime quanto inquietante, con due giovani il cui inspiegabile, feroce e devastante appetito li allontana dal resto del mondo e che, nonostante il loro desiderio di trovare un luogo nel quale sentirsi davvero a casa, li porta a fuggire. Una patologia raccapricciante la loro e che Guadagnino porta oltre i confini del genere. Le loro voglie implacabili non sono trattate come un qualcosa di cupo o mostruoso, quanto, semplicemente, come un destino inevitabile. E a mano a mano che la vicenda si sviluppa, il racconto si trasforma per l’appunto in una liberatoria odissea on the road di due giovani alla continua ricerca di se stessi in un contesto che non tollera il loro modo di essere.
Una storia in cui l’improvvisa fame di carne umana dei personaggi, non viene mai intesa, come un modo per rompere i tabù al fine di scioccare il pubblico, bensì l’esatto contrario, ovvero mettersi nei panni di chi si sente perso, di chi non riesce a trovare il proprio posto e si ritrova a vagabondare ai margini, di chi viene costantemente respinto dalla società eppure accettato dai propri pari. Dove la richiesta di essere mangiato che equivale al far parte per sempre del corpo e dell’anima dell’altro.
“Per quanto mi riguarda sto ancora cercando” – spiega Taylor Russell parlando delle persone affini – “Ho qualche persona speciale nella mia vita alla quale sono legata, ma questa è la bellezza, trovare sempre più persone con cui senti di avere una connessione profonda, e io ho già qualche relazione profonda. Ho un fratello di 19 anni e pensando a lui in questo mondo, il giudizio di se stessi e degli altri è così drastico a volte, severo, e fa paura, perché la speranza è quella di trovare il proprio equilibrio, ma è difficile oggi. Non so quale sarà il futuro, è una cosa a cui penso spesso.”
“Per me la mia tribù è stata in Europa, e capire che ci sono persone come me in tanti posti. A Gerusalemme, a Washington” – afferma invece Timohèe Chalamet già diretto da Guadagnino nel film candidato all’Oscar “Chiamami col tuo nome” – “Mi sono reso conto che è difficile trovare la propria tribù avendo genitori con un background diverso, non solo tra la gente del mondo dello spettacolo ma anche altre. Questo film è stato fatto durante la pandemia, questa sensazione di essere isolati, di non avere una tribù, di non avere contatti sociali, ci ha rallentati nel capire chi siamo nel mondo. E noi abbiamo trovato il nostro posto in questa storia; quindi, la storia di Maren e Lee è di persone che si isolano profondamente senza una vera identità, e che attraverso lo specchio dell’amore trovano il modo di crescere. Abbiamo lavorato con attori esperti, è stata un’esperienza e ci ha aiutato a capire questa vita di desolazione, isolamento, povertà ed emarginazione” – prosegue – “Rispetto a ‘Dune’, e quindi delle storie in cui chi fa parte di una profezia non può sottrarvisi, questa è una storia del Midwest americano degli anni ’80 di persone diseredate. Con Taylor Russell abbiamo parlato molto, e Luca ha ascoltato e accettato i nostri suggerimenti. Lee è un’anima spezzata, un ruolo davvero interessante per me. Il lavoro di Cloe e Taylor, è straordinario, il cast di attori straordinari. Per quanto riguarda il punto di vista dell’amore familiare e amicale, provo amore per la mia nuova amica Taylor, per Luca, e per l’altro tipo di amore sono ancora tanto giovane. Vorrei prima diplomarmi. L’amore tra questi due personaggi è un amore tragico e fortissimo.”
“Il termine marginalizzato è fondamentale” – prosegue Chalamet – “Questa idea di isolamento nel film di Luca, deriva dal successo, credo che tutti durante la pandemia abbiamo provato un isolamento sociale profondo, e per capire chi siamo abbiamo avuto bisogno del contatto con l’altro, e credo che nella sceneggiatura ci sia questa profonda delusione per la vita che è poi quello che caratterizza il film.”
“Io ero con Taylor intervistata ieri che parlava di benessere olistico, era la Willy Wonka delle pozioni magiche, diceva ‘vorrei fare una pozione che permettesse di eliminare il giudizio delle persone’. Questa sensazione di essere giovane, credo valga per tutti, non posso immaginare cosa significhi essere giudicati dai social media lottando con un dilemma interno, centomila social che danno giudizi, perché magari pensi di trovare lì la tua tribù. È difficile vivere oggi, il crollo della società è già nell’aria direi. Spero di non essere troppo ambizioso, penso che questo film sia un film che conta, che possa gettare luce sulla situazione” – infine spiega il suo coinvolgimento nel film anche come produttore– “Luca è stato quasi un padre con me mi ha guidato, il motivo è il lavoro che io Luca e David abbiamo fatto prima sulla sceneggiatura, e non avrei mai sperato di partecipare ad un lavoro come questo e spero di continuare su questa strada e fare anche le cose in cui non ci sono io.”
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Emanuela Giuliani
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