La recensione dello scandaloso film di Paul Veroheven Benedetta, al cinema dal 2 marzo distribuito da Movies Inspired.
Possiamo parlare di religione cattolica, possiamo segnalarne i paradossi ricattatori, e comunque non dovremmo chiedere scusa a nessuno. Non dopo che autori come Paul Verhoeven, e i suoi maestri ispiratori prima di lui (ogni provocatore degno di questo nome, nel e al di fuori del mondo cinematografico, a partire dagli uomini di scienza), hanno già disteso e appianato la strada per tutti quelli dopo, professando il bisogno dell’offesa e facendo del sacrilegio una necessità morale impellente.
Benedetta è stato venduto con una frase, “Showgirls, ma in un convento”, in cui risiede ogni brandello della sua anima infamante (accostando un luogo di ritrovo spirituale con uno di ritrovo carnale senza ulteriori digressioni), ma che non lascia ancora intendere in quali angoli dell’opera, in quali modi e per quali precise ragioni, sarà possibile ritrovare le ferite più brucianti della sua indecenza.
La storia di Benedetta
Benedetta Carlini (Virginie Efira) è la figlia di un’agiata famiglia toscana che vive nell’Italia del XVII secolo. I genitori decidono di accompagnare la figlia al convento delle Teatine di Pescia, piccola cittadina toscana che è stata miracolosamente risparmiata dalla sciagura della peste. Durante il tragitto la famiglia viene aggredita da un gruppo di banditi, ma salvata dalla fede purissima dell’ancora piccola Benedetta: in perpetuo dialogo con Dio, questi deve averla ascoltata quando un escremento di uccello ha colpito in pieno un occhio di uno dei criminali, permettendo alla bambina di salvare i genitori. Crescendo nel convento, Benedetta incontrerà poi Bartolomea (Daphne Patakia), che farà il suo ingresso in un secondo momento, desiderosa di liberarsi dalle sevizie di un padre violento. Sarà un momento rivoluzionario quello da cui nascerà una relazione saffica fra le due donne, di nascosto dagli occhi indiscreti e vigilanti delle altre suore e della madre badessa. O forse non così celate: il dubbio non sarà più ignorabile quando accuse di blasfemia, simulazione di miracoli, eresia e fornicazione sessuale non piomberanno sulla testa di Benedetta, mettendo in crisi tutto ciò che le sue brillanti e divine visioni le suggeriscono.
I miraggi della coscienza di Benedetta tra realtà e finzione
La domanda sorge spontanea: cos’è che i sogni a occhi aperti dicono a Benedetta? Cos’è che rende la sua fede così granitica e talmente limpida da stupire le altre sorelle e tutto il compartimento di ecclesiastici che ne invidiano, ammirandolo, il legame profondo con un divino che a loro non parla mai?
Sono miraggi fulgidi le scene che la coscienza della donna partorisce nei momenti più critici, aggrappandosi con fermezza ugualmente disperata e monolitica ai propri principi. E Paul Verhoeven questi attimi, li rappresenta con un gusto tutto suo che ravvede nell’unione fra sacro e profano, fra tono drammatico e sapore kitsch, l’unico linguaggio possibile per restituire l’assurdità insita nella sicurezza della sua protagonista.
La Benedetta di Verhoeven è pertanto il frutto di una creatura ibrida fra realtà e finzione, ma essa stessa un’antitesi in bilico fra menzogna e verità, contrapposizione fatta personaggio e pensata per trasporre sullo schermo i principi discordanti e instabili del dogma cattolico. Perché non è mai possibile accorgersi, in veste di spettatore, quanto di consapevole vi sia nella spiritualità di Benedetta, e se da ideologia nasca in lei fede sincera (e fedeltà) o se, piuttosto, non sia il contrario: se non sia, invece, il bisogno di credere che si autoalimenta con la promessa di divinità, costantemente rinnovata, a rappresentare il punto d’inizio di un patto con Dio che ignora ogni mistificazione in virtù della verità. Mentire per dire e dirsi il vero, costruire (e ricostruire la figura di Gesù, atto che a Benedetta costerà la condanna più grave di tutte) per farsi parabola del verbo in terra.
Se la sofferenza è il prezzo da pagare per avvicinarsi a Cristo, Benedetta lo fa ma viene tacciata di blasfemia. Se è nel bene che Cristo può essere trovato, allora Benedetta cerca il piacere e quando lo trova viene accusata di crimini sessuali. Allora forse Benedetta non è solo un gioco di prestigio. Certo, ammicca al titillante immaginario del filone conventuale italiano solo per attrarre lo spettatore in una ragnatela di punzecchiature ben assestate e d’intensità sempre crescente al paradosso religioso dell’amore nel dolore. E Verhoeven ne esce con orgoglio e in piedi, come tutti i grandi prestigiatori.
Però Benedetta è anche una potente, incandescente e già indimenticabile arringa sul rapporto delle donne con la spiritualità, con i ricatti della religione, con altre donne e con la società di ogni epoca, che non si è mai nemmeno curata della propria fermezza e della propria razionalità nel disporre i propri dettami. O che, invece, della sua contraddittorietà ha fatto perfetto strumento manipolatorio, nei secoli dei secoli.
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Federica Cremonini
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