un uomo seduto su una sdraio su una spiaggia

Beau ha paura: la recensione del surreale e paranoico film di Ari Aster

La recensione di Beau ha Paura, il nuovo atteso film di Ari Aster con protagonista il premio Oscar Joaquin Phoenix, nelle sale italiane dal 27 aprile 2023

Nella triade composta dai talenti che plasmano la nuova generazione horror sotto l’etichetta della A24, sempre più decisa a liberarsi dagli schematismi e a sfidare il suo pubblico, Ari Aster occupa senza dubbio uno dei vertici. Beau ha paura è l’occasione perfetta per il regista, già autore di Hereditary e Midsommar, di espandere i temi già affrontati e di farlo immergendo i suoi personaggi in un clima confuso di paranoia e surrealismo, ma la sfida di Aster – in primis con se stesso – stavolta è forse troppo audace.

La trama di Beau ha paura

Beau (Joaquin Phoenix) ha molta paura. Il mondo gli si schiude davanti come un essere multiforme e ostile, pronto a divorarlo. Per questo Beau, uomo di mezz’età, è solo o sente di esserlo (ed è uguale): è lui, per sé, l’unica costante in grado di fornirgli le coordinate per orientarsi in un ordine incomprensibile, convulso e caotico in cui nulla ha davvero senso. L’altra costante è sua madre, Mona Wasserman (Patti LuPone), glaciale presenza che invade la sua esistenza senza davvero alleggerirla. Il viaggio di Beau è all’apparenza semplice: deve recarsi a casa di mamma Mona. Ma quel che avrebbe dovuto essere un percorso lineare, semplice, tranquillo, si trasforma: Beau perde l’aereo, la mamma muore e il primo, nel tentativo di partecipare al funerale, scivola rapidamente in un’odissea di minacce assurde che sfidano la sua integrità psichica, lasciando a briglia sciolta tutte le sue recondite angosce esistenziali e le sue paure più profonde.

Beau ha paura, ma Ari Aster no

un uomo ferito in volto

Beau ha paura ma Ari Aster non ha paura di mettersi a nudo, e di farlo senza alcun compromesso. In realtà non è davvero chiaro quanto, o come, ciò che vediamo rappresentato in Beau ha paura sia la rappresentazione della psiche del suo autore e quanto sia il frutto di una fantasia esagerata che non si pone limiti, e che può farsi sguardo di chiunque. Se, però, la storia cinematografica ci dice qualcosa, c’è sempre (specialmente in opere personali, libere e criptiche come questa) un fondo di verità a cui attingere, o la storia – o ciò che ne rimane – non si costruirebbe in questo modo.

Perché il complesso di Edipo? Perché il timore reverenziale nei confronti di una madre? E perché, soprattutto, la connessione suggerita eppure palese fra tutto questo e un rapporto con il sesso che è deviato e innaturale? È un vortice onirico privo di consequenzialità logica ma non di chiaro significato, perché le poche (ma assolutamente esclusive e intime) idee che sorreggono l’illogico pellegrinaggio del protagonista nella paradossale geografia dei suoi spazi mentali sembrano quasi concepite e partorite all’interno di uno studio e nel contesto di una dolorosa seduta psicoanalitica.

Pochi concetti, disseminati qua e là nelle sfibranti tre ore che il regista si concede per mettere in scena la sua visione, ma chiari, espliciti. Tutto il resto va però a costituire il novanta percento del film e, va ammesso, non è esattamente coeso. Non è il dovere di essere universalmente comprensibile a primo sguardo che si richiede a un autore, quanto quello di saper raffigurare qualsiasi materia (anche quella impensabile, come in questo caso) in modo che coinvolga lo spettatore, spingendolo a mettere in discussione le sue capacità di analisi, provocandolo, interrogandolo.

È difficile ammettere che Beau ha paura faccia tutto questo: l’iter di Phoenix è, anzi, un vagabondaggio estenuante che trascina con sé il pubblico per inerzia, insicuro di come tenere unite le sue fila in una serie di intuizioni fra il tragico e il comico, fra il cartoonesco e il drammatico, fra il surreale e il realistico, prive di connessioni che siano anche soltanto simboliche. Il traguardo che segna il percorso di Beau è anche il suo punto d’inizio, senza alcuna scoperta che sia rilevante, senza conoscenza maggiore del personaggio, messo forse a completa disposizione delle fantasie di un autore i cui strumenti sono ancora insufficienti per le sue ambizioni, la cui sicurezza è ancora troppo acerba e sfrontata per permettergli un’opera del genere. Se non altro ora sappiamo con certezza ciò che già immaginavamo, e cioè che essere Charlie Kaufman non è proprio un gioco da ragazzi.

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Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

4


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