La recensione di Back to Black, il biopic su Amy Winehouse nelle sale italiane dal 18 aprile con Universal Pictures.
Nel corso degli ultimi mesi, sono stati annunciati numerosi biopic dedicati alle icone del mondo musicale. Da Michael, in cui Jafaar Jackson interpreta suo zio Michael Jackson, ad A Complet Unknown con Timothéee Chalamet nei panni di Bob Dylan, al recente progetto che a quanto pare vedrà Jeremy Allen Withe nel ruolo di Bruce Springsteen.
Tuttavia, tra questi, ce ne è uno che fin dall’inizio ha dato vita a un crescendo di dubbi e perplessità, ovvero: Back to Black, il film biografico che racconta con uno punto di vista inedito la rapida ascesa di Amy Winehouse e la pubblicazione del suo rivoluzionario albume e che da i titolo al film.
Back to Black non all’altezza della ragazza dietro la star
Approdato nelle sale cinematografiche il 18 aprile distribuito da Universal Pictures, la prima cosa che si è chiesti alla conferma di, considerando l’innegabile e oltremodo travagliato percorso, nonché il profondo bagaglio emotivo, di Amy Winehouse, ci si è subito chiesti se il film sarebbe stato in grado di trasmettere e far vivere quelle intime e tormentate emozioni, e quel viscerale male di vivere, che ha portato l’indimenticabile artista a morire il 23 luglio 2011 a soli 23 anni nel letto di casa sua a Camden Square. Morte, secondo quanto riportato, causata dall’assunzione di una massiccia dose di alcol, in cui si rifugiava, dopo un lungo periodo di astinenza.
La speranza ovviamente, era che questi sentimenti e questa sofferenza, non venissero banalizzati da una narrazione didascalica ed irrispettosa nei confronti di una ragazza fuori dagli schemi con una voce unica. Una giovane che soffriva di bulimia fin dall’adolescenza, in lotta con i demoni della solitudine e con il bisogno di essere amata, e ‘innamorata’ di sua nonna Cynthia (Lesley Maville), ex cantante degli anni ’50 dalla quale ha ripreso lo stile e la celebre acconciatura. Una donna-bambina che viveva con la problematica madre manager separata Janis (Juliet Cowman), e soprattutto che amava il jazz, il blues e non voleva essere trasformata in una Spice Girl.
Aspettative, come facilmente ipotizzato, spazzate via, dal momento che nonostante le buone intenzioni, Back to Black, ripercorrendo il periodo della Winehouse vissuto a Londra nei primi anni ’80, e raccontandolo come detto, dal punto di vista di quest’ultima, non omaggia e rende giustizia alla fragile figura non compresa della ragazza dietro il fenomeno della star, precorritrice della nuova generazione del soul bianco.
Una narrazione edulcorata frutto di una sceneggiatura leggera, che non approfondisce il conflittuale rapporto della pop star con il padre Mitch (Eddie Marson), e soprattutto la relazione con il marito Blake Fielder-Civil, il cui amore malato, tossico ha contribuito nel 2006 alla creazione di uno degli album che si può tranquillamente definire tra i più leggendari di tutti i tempi, e l’ha introdotta all’uso delle droghe.
Scritto a Matt Greenhalgh e diretto da Sam Taylor – Johnson, amica intima di Amy e regista tra l’altro del precedente biopic su John Lennon “Nowhere Boy”, Back to Black, fin da primi minuti ha l’impostazione di una mediocre favola tragica che di reale non ha nulla Riassumendo i momenti più drammatici e significativi in scene prive di empatia, il film evita di mostrare il lato più crudo del tanto buio quanto appassionato viaggio di Amy, dal volto di una non molto somigliante Marisa Abela ma dell’estremamente convince performance.
Un’interpretazione in cui è evidente il lavoro svolto dalla Abela per entrare al meglio in Amy Winehouse, ma non sufficiente in ogni caso a risollevare le sorti di una visione palesemente insoddisfacente, la cui delusione non stupisce affatto così come l’amarezza la stretta al cuore per aver perso prima di tutto un’anima fragile.
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Emanuela Giuliani
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