La recensione di Armageddon Time, il film diretto da James Gray al cinema dal 23 marzo 2023 con Anne Hathaway e Anthony Hopkins.
James Gray è un autore che viaggia per tempi e spazi lontani. Lo ha fatto nel 2013, quando con The Immigrant tornava nella Grande Mela degli anni Venti, e nel 2016, quando muovendosi lungo meridiani e paralleli del globo giungeva a esplorare le civiltà nascoste nella foresta amazzonica in Civiltà perduta. Dopo essersi spinto oltre i confini dell’orbita terrestre per compiere il suo viaggio fra i corpi dello spazio siderale in Ad Astra, Gray torna finalmente a casa: Armageddon Time, presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2022 e poi nella sezione parallela e autonoma di Alice nella città, in occasione della Festa del Cinema di Roma, suggella questo tragitto durato anni e riporta autore e spettatori a New York.
Nella New York degli anni ottanta
La New York è quella del 1980 e la dimensione a cui si torna quella del quartiere Queens, perché è qui che Gray ha trascorso gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza. La storia è quella di Gray ma al contempo quella del suo alter ego Paul Graff (Michael Banks Repeta): figlio di una famiglia agiata e borghese, ma soprattutto bianco e cresciuto in una famiglia bianca, a scuola Paul stringe amicizia con un ragazzo che sembra non avere nulla in comune con lui. È Johnny (Jaylin Webb), afroamericano di differente estrazione sociale, e porta Paul sulla strada della disobbiedienza.
È davvero così, o è solo naturale inclinazione di un adolescente nel fermento del suo più importante cambiamento? Ai genitori di Paul questo non sembra interessare nemmeno un po’, ragion per cui decidono di iscrivere il figlio in un istituto scolastico di altissimo prestigio, frequentata solo da altri ragazzi bianchi e della medesima classe sociale, sperando di allontanarlo da quella compagnia. Aaron (Anthony Hopkins), nonno con un passato toccato dall’odio dell’antisemitismo, sarà figura fondamentale nella vita di Paul, che non vorrà rinunciare alla sua amicizia per regole imposte senza alcun senso morale.
Biografia di una vita
New York, New York: davvero pochissimi autori e registi contemporanei, oltre a James Gray, possono essere descritti come voce e anima esclusiva della Big Apple che ha affascinato per decenni i maestri della settima arte, da Woody Allen a Scorsese. Gray ha un’identità tutta sua, però, che pur raccogliendo l’eredità del passato è proiettato verso un futuro in cui è necessario, per contestualizzarsi nel mondo e nell’arco della propria vita, comprendere da dove si viene. A trent’anni sfiorati dall’esordio Little Odessa, ambientato nell’omonimo quartiere di Brooklyn, e dopo Two Lovers, Armageddon Time è forse l’opera che meglio si presta a condensare questo profondo bisogno di riconnessione alle radici e di registrare la Storia, quella della collettività e del proprio paese, nella storia individuale.
Nella sua ultima opera James Gray ricostruisce il proprio nucleo domestico con il linguaggio dei ricordi – è il secondo film a farlo dopo lo spielberghiano The Fabelmans, anche quello interamente dedicato alla rappresentazione soggettiva della memoria più che al preciso resoconto di una vita passata – e lo fa supportato da straordinarie prove attoriali: prime fra tutte quelle di Hopkins, nei panni nel nonno Aaron, e di una grande Anne Hathaway che veste i panni di madre apprensiva, arricchendola però di sfumature che solo un’attrice nel pieno della sua maturità artistica può conferire a un personaggio senza risultare copia di mille altri cloni (incredibile che non abbia ricevuto alcun riconoscimento per questo). Non è un quadretto famigliare idilliaco quello raffigurato da Gray: è, piuttosto, un piccolo affresco votato sì al sentimento della nostalgia (e in ciò la più grande somiglianza con l’autobiografia di Spielberg), ma impreziosito da un’ironia sferzante che ne smorza i toni quando è necessario guardare al contesto più ampio della collocazione socioculturale dei protagonisti.
“A lot of people won’t get no justice tonight”
Gli anni ottanta di Gray non sono quelli ricreati a partire dall’immaginario collettivo di celluloide e sogni d’idealizzazione, bensì quelli autentici di una personalità autoriale perfettamente consapevole della cornice complessiva in cui ci muoviamo in ogni momento. Lo suggerisce sin dal titolo, “Armageddon Time”.
La denominazione che identifica la fine dell’adolescenza e della sua leggerezza suona come un presagio negativo perché la trasfigurazione di quell’adolescenza viene accompagnata da una rivoluzione culturale più ampia e che è pronta a cambiare le realtà individuali di ognuno; sono gli anni della corsa alla casa bianca di Ronald Reagan, sono gli anni in cui gli Stati Uniti si preparano a lasciarsi alle spalle ogni residuo di un Sogno americano mutato alle esigenze sociali.
Quello che era ormai stato generato dagli ideali del Sessantotto, dalla lotta alla discriminazione razziale e di genere, dal desiderio di contestazione e di emancipazione dal conformismo, si sta preparando a diventare battaglia sanguinosa verso i più alti vertici di un benessere sociale che corrisponde al diritto alla ricchezza senza limiti fisici e morali, dove chi rimane indietro sarà per sempre condannato a rimanere dentro i ranghi di un destino segnato dal privilegio economico.
“A lot of people won’t get no supper tonight, a lot of people won’t get no justice tonight: the battle is gettin’ hotter”, canta Joe Strummer nella Armagideon Time che accompagna il finale e i titoli di coda. E quale miglior brano per sintetizzare quel clima di coesione delle minoranze dei subalterni, sintetizzata nella fusione fra reggae e punk (i suoni del tumulto per eccellenza), che stava spianando il terreno per una battaglia che si sarebbe continuata a giocare sul piano culturale e artistico?
Leggi anche: Armageddon Time: la sceneggiatura completa
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Federica Cremonini
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