La recensione di Air la storia dell’ascesa di Nike e del suo contratto con l’astro (allora giovanissimo) Michael Jordan.
Dietro un grande film c’è una grande sceneggiatura, e ai piedi di un grande sportivo c’è un gran paio di scarpe. Le scarpe sono le Air Jordan, quelle Nike cresciute insieme al rookie Michael Jordan nella sua ascesa verso il successo.
La sceneggiatura è quella di Alex Convery, che racconta ogni fase dell’inaspettata collaborazione: e pensare che, prima di finire fra le mani di Amazon Studios e di Ben Affleck (che torna dietro la macchina da presa a distanza di sette anni dall’ultimo film diretto, Live by Night), Air era finito nella blacklist delle migliori sceneggiature mai realizzate, rischiando di non vedere mai la luce. Pericolo scongiurato, comunque: Air è finalmente in sala, dal 6 aprile.
La trama di Air
Gli anni ottanta sono gli anni ottanta, ma il 1984 è un anno speciale. Apple presenta il primo MacIntosh, Warner Bros. pubblica 1984 dei Van Halen, Reagan e il Vice Presidente George H. W. Bush vennero rieletti, le lancette del doomsday clock si muovono in avanti.
Lo scenario non è esattamente quello descritto da George Orwell in 1984: le cose non vanno benissimo ma neppure malissimo (o così sembrava). E comunque non c’è ancora l’ombra di un big brother. Eccetto per la Nike: per la Nike di Phil Knight (Ben Affleck) le cose vanno proprio malissimo, invece, e c’è ben poco che Sonny Vaccaro (Matt Damon) possa fare per rilanciarne l’immagine. Finora prevalentemente scarpe da corsa professionistica, per compiere il “grande salto” Nike ha bisogno di un volto sportivo come quelli che le più grandi competitor (Adidas e Converse in prima linea) possono vantare. Si guarda al panorama della NBA, escluso Michael Jordan. Nike non può assolutamente permetterselo, Michael Jordan: troppo costoso per un budget e delle possibilità ridotti come quelli a disposizione del modesto brand dalle vendite in calo. Però Sonny vede ciò che gli altri non vedono: e quindi, coinvolgendo il vicepresidente marketing Rob Strasser (Jason Bateman) e Howard White (Chris Tucker) in una scommessa folle per tutti, Sonny Vaccaro scavalca l’agente di Jordan, David Falk (Chris Messina) per parlare direttamente con i genitori, Deloris (Viola Davis) e James (Julius Tennon). Una scarpa è solo una scarpa finché non ci entra dentro qualcuno.
Air: un film sugli Stati Uniti
Michael Jordan non si vede mai in Air. Giunge sempre di spalle, o se ne sta all’angolo e in penombra; se ne vede solo una mano, o una spalla, e la sua sagoma viene continuamente coperta dagli altri, quando non addirittura lasciata fuori campo. Ed è solo una delle brillanti trovate che nel film di Affleck e Convery sintetizzano ciò che è stata la storia di Nike prima che il più famoso cestista di tutti i tempi toccasse quelle scarpe trasformandole in oro.
Nella sua corsa al diamante grezzo che per Sonny è il più prezioso di tutti, proprio perché non soltanto fonte di profitto ma soprattutto prodigio della pallacanestro come non se ne vedevano da tempo, Michael Jordan è un punto d’arrivo: un miraggio per tutti gli altri, per lui meta da conquistare attraverso prove da superare (come quella della madre Deloris, che sarà disposta a farglielo conoscere quando sarà “pronto” per meritarselo). “I want my MTV” intona Sting nell’introduzione di Money for Nothing dei Dire Straits, che ci trascina dal logo di Amazon Studios ai titoli di testa in un vortice di suoni e immagini (di repertorio e di finzione) che restituisce intatto, effetto grana di pellicola incluso, lo spirito di quegli Stati Uniti capaci di generare la favola consumistica e capitalistica di un’azienda di scarpe sportive che sogna solo una grandezza in termini di ricchezza.
Perché Air è, prima ancora che una piccola storia diventata realtà, la grande storia di un paese che negli anni Ottanta stava davvero per entrare in un’epoca diversa da tutte le precedenti, votata al consumo vistoso, alla pubblicità, alla globalizzazione e al “feticismo della merce”, e forse Nike ha assunto un ruolo di spicco nella fase di transizione verso quella nuova era che James Gray chiama Armageddon Time (interpretando in modo del tutto diverso la “fine del mondo” che nell’84 si attendeva nella forma di guerra) nel suo ultimo e omonimo film. Inconsapevolmente, però. Sonny Vaccaro, interpretato anima e corpo (fuori allenamento, perché fuori allenamento è quello stesso Vaccaro che sogna Jordan) da un grandioso Matt Damon, ambisce soltanto alla ripresa della sua azienda, che non vuole veder fallire per non fallire lui stesso. Mette in atto una strategia per vincere la competizione contro i giganti che l’hanno sempre schiacciato, ma che non vedono in Jordan ciò che lui vede.
Il feticismo della merce
Dal primo all’ultimo minuto Air, ritmato da un montaggio serrato e da una sceneggiatura ineccepibile, sembra una sorta di bizzarra ode al capitalismo che viene però ribaltata di senso nei suoi ultimi venti minuti: al solenne discorso improvvisato – come improvvisato fu l’ “I have a dream” che è altro oggetto totemico del film, perché ad assumere valore è prima di tutto il pezzo di carta che lo contiene – per fare breccia nel cuore di un giovane diciassettenne, la futura stella più brillante del firmamento del basket, viene violentemente frapposta una sequenza di contrattazione che quantifica in termini economici il valore di una persona.
Il Knight di un Affleck in grande forma (attoriale e registica), irrequieto e in crisi fra le fila del suo stesso incarico, cerca di assicurarsi il controllo su una situazione più grande di tutti, da cui si può solo uscire vincitori per non soccombere al tracollo finanziario, ma in una scena quasi crepuscolare capisce che la sua vittoria sarà anche un balzo a senso unico da cui non sarà possibile tornare indietro, per nessuno.
Una colonna sonora che è contenitore dei grossi numeri degli anni ottanta statunitensi, riciclo di colonne sonore (Body Double e Risky Business, speculare favola capitalistica) e delle hit pop del decennio (Chaka Khan, Alan Parsons, Cyndi Lauper, The Clash, REO Speedwagon, Bruce Springsteen), diverte ma non basta a indorare la pillola, che va inghiottita intera: Air Jordan è il feticismo della merce che si compie in definitiva, ma anche il simbolo di un fine che giustifica il mezzo nella nuova società e nel nuovo ordine delle cose. Finché ci sarà qualcuno a pagare la sanzione, non conta che le regole non vengano osservate.
Andiamo in sala a vedere Air e poi, come Bateman, ascoltiamo di nuovo (e meglio) Born in the USA.
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Federica Cremonini
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