La recensione di ACAB, la serie disponibile in esclusiva su Netflix dal 15 gennaio e che ha tutte le carte in regola per stupire.
Tratta dall’opera letteraria “ACAB” di Carlo Bonini edita in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore, e ispirata all’omonimo film del 2012 diretto da Stefano Sollima, che in questo nuovo progetto ricopre il ruolo di produttore esecutivo, ACAB, la serie in sei episodi, debutterà solo su Netflix il 15 gennaio.
Ideata da Carlo Bonini e Filippo Gravino, diretta da Michele Alhaique, e scritta da Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, con lo story editing di Filippo Gravino, la serie arriva a tredici anni di distanza dal film, e affronta, rinnovandolo, il difficile equilibrio legato alla dialettica tra l’ordine e il caos.
ACAB, un equilibrio che continuerà a far discutere
In ACAB, dopo una notte di violenti scontri in Val di Susa con il movimento No Tav, una squadra del Reparto Mobile di Roma resta orfana del suo capo, che rimane gravemente ferito. Quella di Mazinga di Marco Giallini, conosciuto già nel film e costantemente in prima linea, Marta di Valentina Bellè e Salvatore di Pierluigi Gigante però, non è una squadra come le altre, è Roma, che ai disordini ha imparato ad opporre metodi al limite e un affiatamento da tribù, quasi da famiglia.
Una famiglia con cui dovrà fare i conti il nuovo comandante, Michele Nobili, volto di Adriano Giannini, figlio invece della polizia riformista, meno energica, se così si può dire, per cui le squadre come quella sono il simbolo di una vecchia scuola, tutta da rifondare. Come se non bastasse il caos che investe la nuova formazione nel momento di massima fragilità interna, si aggiunge quello dato da una nuova ondata di malcontento della gente verso le istituzioni. Un nuovo “autunno caldo” contro cui proprio i nostri sono chiamati a schierarsi e in cui ogni protagonista è costretto a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e della propria appartenenza alla squadra.
ACAB, il passato continua segnare il presente
Con una regia decisa e dinamica, ACAB, come detto, forte di grandi aspettative, seguendo in linea di massima i passi del lungometraggio del 2012, adegua attualizzando il difficile equilibrio legato alla dialettica tra l’ordine e il caos che da sempre viaggia di pari passo sul terreno precario della società in costante evoluzione. Tema che divide e continuerà a dividere l’opinione pubblica suscitando non poche polemiche, e che questo nuovo progetto seriale affronta superando il confine dei generi action crime, offrendo così uno sguardo più dettagliato, intimo e approfondito del complesso sistema di cui fanno parte la violenza, la rabbia repressa, la manipolazione della violenza, il rapporto tra sicurezza e libertà, il disorientamento e la disillusione.
Stati d’animo e sentimenti che riguardano sia la società che i personaggi protagonisti ognuno dalla ben definita e caratterizzata personalità e storia, esplorata singolarmente in ciascun episodio grazie a una narrazione che ne focalizza l’autenticità, ma soprattutto i profondi conflitti che ognuno di loro porta dentro di se specchio e riflesso della loro professione e vita privata.
Un tortuoso labirinto psicologico in cui la serie si addentra con l’obiettivo di analizzarne le sfumature con una maggiore attenzione, riuscendo nell’operazione di ‘aggiornare’ un argomento intrattenendo e senza la presunzione di voler dare delle risposte. Osservando, esaminando e lanciando una riflessione in merito a un contesto estremamente fertile e contrastante, la serie ACAB infatti approfondisce quella dimensione pubblica e privata che si tende a giudicare con troppa facilità.
Verdetti, conclusioni e valutazioni la cui sempre più diffusa mancanza di logica e giusta razionalità, porta alla formazione di schieramenti spesso privi di corrette motivazioni, frutto della distorsione e manipolazione dei punti di vista delle parti coinvolte, opera di chi dall’alto dirige tutto per scopi personali.
Scandagliando il rapporto di quelle dimensioni, ACAB quindi, capovolgendo in un certo senso quella visione non sempre lucida della realtà, pone lo spettatore dietro la visiera del casco azzurro, dietro il plexiglass degli scudi di protezione dell’ordine pubblico, dei reparti della celere, per guardare con gli occhi dei poliziotti ciò che accade e si prova.
Angolazione che permette di percepire i dubbi, le paure e i contrasti interiori di una polizia completamente diversa da quella di 14 anni fa, ma prima di tutto di uomini e ora donne, padri e madri di famiglia, compagni/e, fratelli e sorelle, mariti, mogli, figli, figlie, fidanzate e fidanzati, dal momento che dentro quelle divise troppo spesso dimentichiamo che ci sono loro, pronti a rischiare per la protezione altrui e portare a casa un misero stipendio. E qui incarnati con intensa ed efficace determinazione da Marco Giallini, che torna nel ruolo di Mazinga vestito nel film, da Adriano Giannini, Pierluigi Gigante e Valentina Bellè.
La serie ACAB, quindi, considerando gli ultimi accadimenti di cronaca, sollecita ognuno di noi a uscire, indipendentemente dall’idea, dal giudizio che coltiva e dall’orientamento politico, dalla propria zona confort mettendo in discussione le convinzioni maturate guardando in faccia una polizia segnata, cresciuta e cambiata dopo i fatti drammatici di Genova. Una polizia che ha visto l’ingresso delle donne nei reparti mobili e l’introduzione delle body cam, e che merita di essere conosciuta e compresa in modo del tutto imparziale, e non sia oggetto costante di un immotivato odio.
ACAB, le dichiarazione di Michele Alhaique (regista), Filippo Gravino (sceneggiatore) e Stefano Sollima (produttore esecutivo)
“Quello che mi ha colpito subito la prima volta che ho letto il copione, è stata la possibilità di costruire due mondi: quello privato e quello pubblico con la divisa addosso. Tuttavia avevo capito che l’alternanza di scene pubbliche e private non sarebbe stato sufficiente così paradossalmente sono partito dalla musica”, dichiara il regista Michele Alhaique. “Ho chiesto ai Mokadelic, che hanno composto la colonna sonora della serie, di produrre prima dell’inizio delle riprese dei suoni che fossero una sorta di algoritmo ipnotico, continuo e crescente che non esplodesse mai in un tema. Suoni che non sono finiti nella serie ma sono serviti a me durante le riprese. Li avevo costantemente in cuffia mentre giravo e nella presa diretta, e mi hanno aiutato a costruire una messa in scena che non fosse totalmente naturalistica. Con la macchina da presa ho cercato di seguire non le azioni esteriori ma quelle interiori e private dei personaggi per capire come i loro conflitti potessero influenzare il pubblico, o viceversa, creando una dinamica continua che esplorasse in profondità il racconto, per vedere attraverso le divise e i loro corpi”.
Filippo Gravino lo sceneggiatore spiega: “L’attualizzazione della storia è avvenuta in maniera naturale, per una questione che secondo me avvolge le vite di tutti noi. E’ un tempo questo in cui le emozioni più forti che proviamo hanno a che fare con la paura e con lo sgomento, di fronte non solo hai fatti che riguardano il nostro privato ma anche il contesto sociale e internazionale che ci circonda. Questo sentimento io sento di averlo raccontato nella scrittura e ancora prima nelle idee iniziali che ho portato a Cattleya riguardo al percorso dei personaggi. Sento che questo sentimento di paura governa questo racconto, ed è passato anche nelle mani di chi è venuto dopo, dal momento che l’immagine, il colore, la tensione e i volti dei personaggi raccontano lo sgomento della società che è andata oltre le categorie di caos e ordine che avevamo vissuto fino ad oggi, ed è una delle sostanziali differenze con il tempo che fu di ACAB il film. E’ tutto molto più estremo dal punto di vista del terrore di ciò che può arrivare”.
Infine Stefano Sollima regista del film e produttore della serie dice: “ACAB è stata un’esperienza importantissima da un punto di vista lavorativo e soprattutto umano. La cosa che mi ha insegnato e che mi sono portato dietro nei lavori successivi, è stata l’attenzione nei confronti del punto di vista che adotti nel racconto, e quella era una storia che necessitava di far fare al proprio giudizio morale un passo indietro concentrandosi sul racconto dei personaggi senza giudicarli mai, in modo da farli vivere nella loro pienezza. Molto probabilmente quello sarebbe stato un errore che avrebbe rovinato l’esperienza, e allora parti dal fatto che non devi forzare il pubblico portandolo sul tuo pensiero, ma devi accompagnarlo in un viaggio facendogli le domande giuste. E più sono complicate le domande, quindi possibilmente senza risposte, e più secondo me funziona l’approccio ed è la stessa cosa che abbiamo fatto per la serie”.
La serie ACAB è prodotta da Cattleya – parte di ITV Studios.
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Emanuela Giuliani
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