Falling – Storia di un padre – Recensione: si può scappare ma non ci si può nascondere

“Falling – Storia di un padre” – Recensione: si può scappare ma non ci si può nascondere

Opera prima dall’altro lato della macchina da presa, e non solo, di Viggo Mortensen, “Falling” è la dolorosa storia di un padre, tra presente e memoria, tra un figlio succube e un padre padrone, un filo tenace di emozioni inespresse, narrate come una struggente elegia.

L’attore e regista affronta le crepe di una famiglia non convenzionale. Willis, un misogino e razzista, interpretato in vecchiaia da Lance Henriksen e in gioventù da Sverrir Gudnason, è un conservatore con le radici che affondano nella terra, legato in maniera imprescindibile alla sua fattoria e ai suoi animali che ama incondizionatamente, a differenza dei suoi figli.

In vecchiaia si troverà a doverla lasciare per andare a vivere da suo figlio, Viggo Mortensen, portando scompiglio nella sua vita e nella sua famiglia composta dal compagno Eric e dalla figlia adottiva Monica.

Una vita raccontata attraverso l’uso di flashback ripetuti che dipanano una memoria familiare che affiora nel momento in cui il padre la sta perdendo, vicino alla sua morte.

Un padre omofobo e sprezzante, dalla mascolinità deviata, quasi tossica, che ha saputo rovinare l’esistenza anche delle sue compagne femminili, sottoponendole alla violenza domestica e ad un pensiero deformato.

“Scusa se ti ho portato in questo mondo, potresti morire”

Un rapporto che è ancora più dilaniato con la figlia Sarah, interpretata da Laura Linney in un confronto memorabile da adulta con il suo odiato genitore e che porta John/Mortensen, a sentirsi responsabile per quest’uomo rimasto solo con il quale però sente di condividere, fino ad allora, solo un legame di sangue e nulla altro.

Una pellicola che si nutre di sentimenti, dal disprezzo che circonda Willis, alla pace che hanno raggiunto i suoi figli allontanandosi dal loro nido natale, in cerca di riscatto e di amore.

Un amore che Willis non saprà comprendere, osteggiando continuamente Eric, il marito di John e la famiglia della figlia Sarah.

Mortesen ha usato tutta la sua esperienza da attore in questo progetto, avvalendosi dei trascorsi nei set di registi importanti, come Jane Campion, Peter Jackson, Peter Weir e David Cronenberg, quest’ultimo presente anche nel lungometraggio con un delizioso cameo.

Una storia che ricorda nell’intensità crepuscolare e nei primi piani lenti Clint Eastwood e trascina sulla scena ricordi personali, seppur con personaggi frutto di fantasia.

Un dolore lento, inesorabile, che riesce a costruire comunque attimi di gioia, una mentalità obsoleta e conservatrice che va a scontrarsi con una società urbana progressista, per una narrazione che ci offre un punto di vista odierno sulla famiglia tradizionale e sullo spostamento del concetto di mascolinità ed amore.

Mortensen sostiene che “Una persona ricorda lo stesso momento, la stessa scena, lo stesso individuo in modo diverso da un’altra. Sviluppiamo delle fissazioni di questi ricordi imperfetti che arrivano a definire il nostro modo di vedere noi stessi e gli altri” e questo è un viaggio in una memoria ormai malata che ha solo briciole di ricordi confusi e irrisolti.

Un caleidoscopio di sguardi che parlano da soli e sanno raccontare molto più dei dialoghi e degli scontri.

“Il Natale non significa più niente. E’ solo tintinnio e niente campanelle”

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Chiaretta Migliani Cavina

Il Voto della Redazione:

7


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