Jo Jo Rabbit – Recensione: un’ebrea nella parete della casa di un “coniglio”

“Jo Jo Rabbit” – Recensione: un’ebrea nella parete della casa di un “coniglio”

“Il grosso pericolo delle menzogne è che diventano reali nella mente degli altri. Sfuggono al controllo come semi liberati nel vento, che germogliano per conto proprio nei posti più impensati…” 

Questo capolavoro di Christine Leunens “Come semi d’autunno” ha ispirato la nuova sfida del regista neozelandese Taika Waititi, che ritorna, dopo “Thor: Ragnarok” ad un progetto personale. In bilico tra divertimento e pungente ironia, un tema difficile ed amaro influenzato, comunque, dallo stile del mondo Marvel e denso di citazioni e riferimenti cinefili.

La pellicola narra della storia del piccolo Johannes “JoJo” Betzler, interpretato da uno splendido Roman Griffin Davies, un bambino di dieci anni, immerso nella solitudine, con il padre lontano da mesi e la madre sempre impegnata altrove in una Germania ad un passo dal crollo che porrà fine alla Seconda Guerra Mondiale. Una storia eccezionale su quel Famoso Terzo Reich di cui Mel Brooks non ne conosceva ironicamente il legame con la Germania in “Per favore non toccate le vecchiette” che Waititi evoca con il suo Hitler immaginario.

“JoJo Rabbit” è un innocente riempito di ideali nazisti fino al midollo, identità che lui accoglie per sentirsi parte di un gruppo, parte di qualcosa che gli regali l’affetto che cerca, un bambino che sceglie come amico “virtuale” proprio Adolf Hitler, interpretato dallo stesso Waititi. Un personaggio dissacratorio che riporta alla mente il “Grande Dittatore” di Charlie Chaplin, una macchietta buffa e demenziale, inizialmente un divertente compagno di giochi, che nella lenta presa di coscienza di JoJo, rivelerà la sua negatività ed autoritarismo.

Assistiamo cosi a temi cari anche al Wes Anderson di “Moonrise Kingdom”, la ricerca dell’amore nell’ambiente familiare ed al di fuori di esso, il senso di appartenenza e l’incomprensione come unico codice elementare per tutti i rapporti umani.

Una satira dolce e malinconica su un ragazzino sensibile che vorrebbe diventare un provetto nazista, mentre esce di casa al suono dei Beatles che cantano in tedesco, ma non riesce ad uccidere nemmeno un coniglio nella prova di coraggio. Il baillame conseguente, provocato da lui nel tentativo di riabilitarsi agli occhi degli istruttori, lo costringerà a casa sfigurato in seguito ad un’esplosione.

Una commedia nera dal linguaggio comico deadpan che rispecchia la visione alterata delle giovani menti plasmate dal regime e ne evidenzia le incongruenze, la crudeltà e le ipocrisie. La parte concitata e dal ritmo incalzante ambientata nel campus nazista per giovani reclute, riflette ancora il Wes Anderson dei piccoli scout, attraverso sequenze abbastanza ardite, muovendo la macchina da presa lentamente ed adeguandosi alla vastità degli spazi, al contempo sottolineando la mediocrità e  “La banalità del male”.

“Dicono che i russi mangino i bambini e facciano sesso con i nostri cani, così come gli inglesi”.

Un ragazzino che parla per slogan, vittima di un sistema più grande di lui, che disegna gli ebrei come mostri con corna ed improvvisamente si ritrova in casa Elsa, “un’ebrea nella parete”, ospitata da sua madre, Scarlett Johansson, a sua insaputa.

“I rabbini usano i piselli come tappi per le orecchie”.

Un incontro di due mondi all’apparenza diversi, ma profondamente simili, perchè si può dare al Male le sembianze del Bene e viceversa, come dimostra questa storia, indottrinata tra l’estetica del fumetto dai colori pastello accesi in un grigio scenario bellico e una citazione divertita della Famiglia Addams, in quanto tutto nel mondo è relativo e questo è determinante.

“Fidarti senza paura vuol dire essere una donna”.

Elsa, rinchiusa in quella tetra soffitta, dipinge e sogna ad occhi aperti, e pur essendo prigioniera ha la mente libera di viaggiare e rappresenta l’alter ego reale di JoJo, apparentemente libero, ma ingabbiato prima dal mito della razza ariana e poi dall’ossessione per lei.

“Gli ariani sono mille volte più avanzati e civilizzati di qualsiasi razza”.

Nel delirio satirico assistiamo alla buffa ispezione della Gestapo, ad un Sam Rockwell straordinario nel ruolo di uno sgangherato capitano Klenzendorf dalla divisa tardo ottocentesca ed un cuore d’oro, sarcastico straniamento interrotto da reali squarci di violenza, come i dissidenti impiccati nella pubblica piazza.

Tra quelle figure penzolanti di morte, Jojo riconoscerà, attraverso le scarpe, sua madre, cuore emotivo del film. Un ruolo complesso, un legame denso di simboli, come il ballo liberatorio, emblema del messaggio finale e continui riferimenti ai lacci delle calzature, l’icona del classico legame che può essere sciolto o rinsaldato, in un modo migliore e per un mondo migliore. Sono le figure femminili, in questa pellicola, a rappresentare l’etica, che vince contro un’estetica apparente, grazie agli spiragli di luce aperti nel pensiero comune, per farlo camminare, o ballare, con le proprie gambe.

Un messaggio leggero e pregno di sinceri sentimenti intrisi di tolleranza e rispetto per un mondo dove il razzismo troppo spesso urla alle menti e dall’epilogo altamente commovente esaltato dalla versione in tedesco di “Heroes” di David Bowie.

“La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto” – Hannah Arendt –

Chiaretta Migliani Cavina

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Il Voto della Redazione:

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