“1917” – Recensione: A mani nude nell’orrore della guerra
Fresco vincitore del Golden Globe, Sam Mendes confeziona un film immersivo e viscerale, che attraverso immagini e silenzio trascina con sè lo spettatore lungo la devastazione del crudo orrore della guerra. Liberamente tratto dai racconti di nonno Alfred H. Mendes a cui è dedicato, il regista compie un’operazione titanica che trova il suo unico precedente in “Birdman” diretto da Alejandro Gonzales Inarritu ma ambientato, a differenza di “1917”, negli interni di un teatro di Broadway. Mendes gira, prevalentemente in esterni con un unico piano sequenza, costringendo il pubblico ad una lunga corsa, tra respiri ed affanni, insieme ai due soldati protagonisti.
6 Aprile 1917, nel nord della Francia il sergente Blake, Dean Charles Chapman ed il caporale Schofield, George MacKay, vengono condotti al cospetto del generale Erinmore, interpretato da Colin Firth. Quest’ultimo, servendosi della possibile minaccia di morte che incombe sul fratello del sergente Blake, affida loro l’ingrato e difficile compito di avvisare il colonnello Mackenzie del battaglione Devon, Benedith Cumberbatch, della trappola ordita dai tedeschi, salvando così la vita a 1600 uomini. I due uomini hanno poche ore per affrontare un viaggio nella terra di nessuno, quella zona neutra che separa due trincee tra alleati ed avversari, terra inospitale e pericolosa. Un percorso solitario che sembra non finire mai e riporta alla mente “Gravity” di Alfonso Cuaròn, un cinema fluttuante e denso di tensione con la stessa voglia di rinascita che parte dal silenzio più assoluto. Movimenti di camera sincopati ed una dolcezza rara che traspare nell’immensità delle angosce, l’amore di quegli affetti lontani in bilico tra la vita e la morte.
“…..andare a casa , sapendo di dover partire e che magari non mi avrebbero ….”
Nello stesso modo Mendes usa le immagini, più delle parole, in una sceneggiatura “in secondo piano” semplice e lineare, per lasciar parlare il cuore, vedendo qualcosa di profondo e personale in ogni inquadratura. Siamo noi ad essere là, con loro, in quelle maledette trincee, sfioriamo i proiettili e guadiamo il fiume con loro, senza sosta come se non ci fosse un domani.
Quando stiamo per perdere tutto, quando tutto quello che amiamo ci è stato levato e la morte ci circonda ad ogni passo, della vita cosa ci resta? Quella effimera bellezza che Mendes ci mostra nei ciliegi divelti, eppure ancora in fiore, nel loro ciclo eterno di alternanza tra morte e rinascita. Immagini evocative essenziali e colori desaturati, tra lampade al sodio e visioni notturne, una descrizione visiva ed emozionale dell’angoscia di quei giorni e di quel conflitto logorante, con intermezzi di pura poesia.
Un cast superlativo con grandi nomi incorniciati in brevi ruoli cameo, oltre Cumberbatch e Firth, anche Andrew Scott e Mark Strong, quasi a voler sottolineare il vero protagonista a cui soccombere, la guerra, ricordando nella scelta Christopher Nolan in “Dunkirk”.
Una forma che è essa stessa contenuto e contenitore, un viaggio epico che parte dalle retrovie delle trincee, passando dal fogliame del bosco silenzioso che ricorda Malick, fino ad arrivare alle rovine della cittadina abbandonata di Eouste Saint-Main.
Una corsa che si vive tutta d’un fiato, camminando costantemente sui cadaveri, quasi con la percezione della puzza e del fetore della guerra, strisciando accanto ai topi, unica compagnia la sola morte. Quella morte che predomina sulla vita anche quando si mostra nel sorriso di una neonata nascosta tra le rovine, con il tedesco dietro l’angolo, in quella scena magistrale dalla monumentalità fortemente teatrale.
Una lunga sequenza notturna dove l’unica illuminazione sono i razzi sparati nel cielo, e le ombre che incontrano i chiaroscuri di ruderi e persone accentuano la drammaticità e mostrano la grandezza della pellicola. Un dinamismo quasi spettrale creato da una fotografia eccelsa, ad opera di Roger Deakins ed una regia attenta che allunga l’abbraccio sulla sera come un’ombra pulsante in continuo movimento. Determinante anche la meravigliosa musica di Thomas Newman, che si fa più tetra ed eroica in un crescendo inquietante di potenza che accompagna magistralmente l’azione.
Una colonna sonora in stato di grazia, espressione del tumulto interiore del “viaggio dell’eroe”, in un crescendo di ansia che ricorda le musiche di Hans Zimmer in “Dunkirk”, espressione al contempo di dolore e tragedia, sollievo e poesia, malinconia e vigore, in una danza sublime tra campo e controcampo per un climax di perpetua tensione.
“…..la speranza è una cosa pericolosa. Vince chi sopravvive”
Un cinema innovativo, denso di realismo e fatto con sapienza e passione, che si traduce in un’esperienza unica, avvolgente e totalizzante, in cui il vero “deus ex machina” è la regia straordinaria di Sam Mendes che porta il cuore oltre l’ostacolo insieme a noi, passeggeri di quel viaggio disumano ed intenso che è “1917”.
“La guerra non si può umanizzare. Si può solo abolire” – Albert Einstein –
Chiaretta Migliani Cavina
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